Paolo Crosa Lenz Lepontica/16 Febbraio 2022
Sommario
1. Elogio del castagno
2. Armundàa
3. Chi si ricorda della vaina?
4. La vitalità della poesia dialettale
5. Verkos protegge acque e boschi
6. Ludwig von Welden: il “padre del Rosa”
7. Un canonico e due bicchieroni
Natura
1. Elogio del castagno
Il castagno (Castanea sativa nella lingua delle scienze) è sempre stato un albero prezioso per la civiltà contadina di montagna. Non vi parlo dell’arbul, il castagno da frutto innestato, l’italico albero del pane, ma del castagno selvatico, che cresce spontaneamente dai 300 agli 800 m di quota, spesso dominante con ampie ceppaie nel bosco misto di latifoglie. Il suo nome in dialetto è salvagh o salvadigh, “selvatico” per eccellenza. Come certi uomini. Anche il selvatico dà frutti, ma non sono quelli grossi ad uso alimentare, sono castagne piccole che si davano ai maiali (ingrassavano con meno grasso e più carne). Il valore economico e sociale del castagno era il suo legno, sia da opera che da ardere.
Se, nelle alte valli di montagna, le travature dei tetti erano fatte con tronchi di larice, nelle basse valli erano in tronchi di castagno. Due modi differenti di utilizzo delle risorse della montagna. Ci sono tetti di cinquecento anni con le travature di castagno: è duro come il ferro e se provi a tagliarlo mangi la catena della motosega.
Cede solo quando nei tetti di piode penetra l’acqua che piano lo indebolisce, ma ci vogliono anni. I denti dei rastrelli (merita un canto questa macchina meravigliosa del mondo contadino!) erano fatti di castagno, resistente ad ogni asperità (oggi sono di plastica).
Il legno di castagno ha un buon valore calorico: mille inverni sono stati superati bruciando castagno. Albero paziente, richiede pazienza dagli uomini.
Lo tagli, devi spaccarlo in verticale, lasciarlo almeno un inverno sotto l’acqua che toglie il tannino (altrimenti nel camino diventa nero, puzza, non brucia e non scalda), poi lo tieni all’asciutto per un anno o due.
Alla fine ti scalda la casa e forse anche l’anima. Per me il castagno rappresenta le tante piccole o grandi cose buone della vita; da inseguire a lungo e con pazienza. Quando metto nel camino un legno di castagno, sono contento.
Una parola al mese
2. Armundàa
Storicamente sulle Alpi si sono formati due modelli di civiltà: quella prettamente alpina oltre i 1.000 m di quota (i Walser ne sono un esempio) e quella chiamata “civiltà rurale montana” (la definizione è di Nino Chiovini). In febbraio e marzo, sulle pianure di fondovalle di origine glaciale, i lavori agricoli riprendevano dopo una breve sosta. Nelle alte valli alpine, la neve rimaneva al suolo fino ad aprile o maggio, poi iniziava la contrazione spasmodica di lavoro in un’estate di pochi giorni.
Il “lungo sonno” degli inverni alpini, nelle basse valli era solo un’illusione.
Nel mio paese, in bassa Val d’Ossola, erano i mesi dove si armundava.
Storicamente sulle Alpi si sono formati due modelli di civiltà: quella prettamente alpina oltre i 1.000 m di quota (i Walser ne sono un esempio) e quella chiamata “civiltà rurale montana” (la definizione è di Nino Chiovini). In febbraio e marzo, sulle pianure di fondovalle di origine glaciale, i lavori agricoli riprendevano dopo una breve sosta. Nelle alte valli alpine, la neve rimaneva al suolo fino ad aprile o maggio, poi iniziava la contrazione spasmodica di lavoro in un’estate di pochi giorni.
Il “lungo sonno” degli inverni alpini, nelle basse valli era solo un’illusione.
Nel mio paese, in bassa Val d’Ossola, erano i mesi dove si armundava.
Leggende e tradizioni
3. Chi si ricorda della vaina?
La vaina o swàina è, con l’om salvagh e i nani, la figura fantastica più diffusa e profondamente radicata nella tradizione popolare in Val d’Ossola. La sua figura è tuttavia indeterminata e vaga, un’immagine sbiadita in una memoria lontana. Una presenza nella memoria collettiva slegata da immagini concrete. Secondo gli anziani che ne parlano, è essere dall’aspetto di bambina fasciata che emette un verso dolente mentre si muove rotolando su se stessa; appare all’improvviso e le persone, tra le cui gambe riesce a passare, moriranno entro l’anno.
È una voce stonata e lamentosa di donna, anche usata per indicare qualsiasi rumore notturno del bosco non identificabile. A Premosello e Colloro viene definita come un vortice d’aria che si sposta molto velocemente emettendo suoni come il pianto di un bambino appena nato. A Pieve Vergonte e Fomarco è un animale informe coperto di fasce che rotola su sé stesso.
Nella sua raccolta sulle leggende delle Alpi, Maria Savi Lopez la descrive come triste e minacciosa apparizione di una lepre bianca che rotola sulla montagna.
La figura fantastica della vaina rimanda forse a credenze antiche di origine religiosa sui bambini prematuramente morti senza battesimo.
Era diffusa sulle Alpi la credenza nel rito del répit (respiro), il momentaneo “ritorno alla vita” dei bambini morti senza battesimo per permettere loro di ricevere il sacramento ed essere quindi sepolti in terra consacrata. I bimbi nati morti o deceduti nei primi istanti di vita venivano portati processionalmente in santuari dedicati (il Boden di Ornavasso, l’oratorio della Madonna della Neve a Borca di Macugnaga e il santuario di Re in Val Vigezzo) dove, con un’apposita ritualità, avveniva il répit. Quando questo non accadeva, l’anima del piccolo era destinata a vagare senza pace in eterno.
Nel 2009 una brava ricercatrice del Lago d’Orta ha scritto un libro misterioso e affascinante (Fiorella Mattioli Carcano Santuari a répit Priuli e Verlucca, 2009).
In Italia sono rari, ma questi luoghi del “ritorno alla vita” sono diffusi a nord delle Alpi. In Europa ne sono stati censiti 279.
Vi lascio con una leggenda di Montescheno in Valle Antrona. “Una graziosa bambina in fasce piangeva frequentemente. La madre sua, perduta alfin la pazienza: và ‑ le imperò ‑ che ul diaul ut porta via! E il diavolo infatti se la portò via, ma ebbe pietà dell’innocente bambina; e, invece di portarla nel suo regno di squallore e fra dannati, la condannò a vagare rotolando in fasce sin alla fine del mondo.
E l’infelice bambina compie il suo destino piangendo e vagando, e può offendere i bambini che incontrasse di sera sul suo passaggio.” Oggi siamo fortunati: la Chiesa ha abolito il Limbo!
Letteratura
4. La vitalità della poesia dialettale
La poesia dialettale in Val d’Ossola, ma mi dicono in tutta l’Italia, è quanto mai vitale. È una poesia che va pensata e poi scritta in dialetto, una lingua regionale che presenta infinite varianti. Spesso i poeti dialettali elaborano propri codici ortografici per scrivere i versi (quelli codificati dalle scienze linguistiche sono troppo complessi). Codici che solo chi parla il dialetto può comprendere. Molto spesso a pochi chilometri di distanza, due paesi parlano dialetti diversi. O forse è meglio dire parlavano, perché i giovani non lo parlano più. Ed è bene così.
È importante che i nostri giovani imparino bene l’inglese e l’informatica, magari anche il tedesco, lo spagnolo o il cinese. Le lingue della globalizzazione. Il dialetto era la lingua di un mondo piccolo, che spesso finiva oltre il fiume o la cresta di una montagna.
Era una lingua da poveri, operai e contadini. Gente che non era andata a scuola. E a scuola a volte erano puniti perché parlavano in dialetto. Un mondo che non c’è più.
Ogni anno nella mia valle si tiene un concorso di poesia dialettale intitolato ad Armando Tami, poeta dialettale di buona levatura.
Quest’anno l’ha vinto un mio amico, Walter Bettoni, che ha dedicato una poesia ad uno stabilimento siderurgico di Villadossola in corso di smantellamento. Nel Novecento vi lavoravano duemila persone.
Una lingua che non c’è più per raccontare un mondo che non c’è più.
Ghé più ma i öss
A sòm pasò propì ièr,
ma lì lé restò più ma i öss.
La pulpa ‘n dua lé nàcia?
Vàrda ti, chi ghé öss dapàrtütt!
Pensà che chi ‘l gnèva tànta ‘d cùla gènt,
da’n giù, da’n cià, dai vàlèr;
‘n café, n’ bicèr, ‘na mìca e pö dènt;
‘n café, ‘n bicèr e pö a cà.
E dès ghé più ma i öss.
Vàrda anca ti, quànt ti pàsat da Vìla,
vàrda pulìt,
dùl stabilìmènt
ghé più ma i öss,
öss ad fèr, ma mà öss.
Ci sono più solo le ossa
Sono passato proprio ieri / ma lì sono restate più solo le ossa. / La polpa dove è andata? / Guarda tu, qui ci sono ossa dappertutto! / E pensare che ci veniva tanta di quella gente, / da in giù, da in là, dalle valli; / un caffè, un bicchiere, una michetta e poi dentro; / un caffè, un bicchiere e poi a casa. / E adesso ci sono più solo le ossa. / Guarda anche tu quando passi da Villadossola, / guarda bene, / dello stabilimento / ci sono più solo le ossa, / ossa di ferro, ma solo ossa.
Gli “stabilimenti” siderurgici della Villadossola operaia nel Novecento (da: T. Bertamini, Storia di Villadossola, 1976).
Le “ossa” oggi (foto di Stefano Falavigna).
Archeologia
5. Verkos protegge acque e boschi
Dresio è una frazione di Vogogna, un pugno di case immerse nel verde e addossate al ripido versante della montagna in Val d’Ossola.
Lì vicino, un’iscrizione romana (196 d.C.) parla del restauro di una strada minore che, alla fine dell’Ottocento e nel Novecento, archeologi frettolosi hanno spacciato per la “strada romana” del Sempione. Non c’è nessuna prova storica e archeologica di questo.
Una supposta teoria. La moderna ricerca ha detto che “il re era nudo”.
Queste terre erano frequentate, lavorate e vissute nell’antichità. Lo dimostrano le necropoli di Ornavasso, Gravellona-Pedemonte e Mergozzo; i musei documentano una civiltà alpina evoluta. Poco sappiamo di pensiero simbolico e divinità.
Recenti ricerche hanno dimostrato che un mascherone di fontana era in realtà una “testa” di divinità. La testa celtica di Dresio rappresenta una divinità dei Leponti, antichi abitatori dell’Ossola, e risale al III-II secolo a.C.
La materia con la quale è realizzata è una pietra ollare (laveggio nei dialetti locali) proveniente probabilmente dalla valle Antrona.
Gli archeologi identificano questa divinità con Verkos o Belenos, dio delle acque salutari e della vegetazione, assimilabile all’Apollo romano a cui era sacra la pianta del tasso. È attuale la necessità di una potente e temibile divinità protettrice dei boschi e delle acque, quale pare provenire dalla testa celtica di Dresio.
Oggi la “testa di Dresio” è conservata presso il Palazzo Pretorio di Vogogna, ma amici mi dicono che dovrebbe in un futuro imminente essere spostata al castello visconteo. Là dove c’è già un lupo imbalsamato, anni fa finito sotto un treno.
Due forze della natura che ci dicono qualcosa.
Alpinismo
6. Ludwig von Welden: il “padre del Rosa”
Il 25 agosto 1822 un ufficiale dell’imperiale esercito austriaco saliva in prima ascensione la Ludwigshöhe, la “Punta Ludovica” (4.342 mt.) nel gruppo del Monte Rosa, versante valsesiano, tra la punta Parrot e il Corno Nero. Oggi gli alpinisti la raggiungono agevolmente salendo o scendendo dalla Capanna Margherita.
Duecento anni fa era un’altra storia. L’amico Teresio Valsesia ha ricostruito puntigliosamente la biografia del primo salitore che propone come “il padre del Monte Rosa” (Almanacco Storico Ossolano 2022). Così come Horace Benedicte de Saussure viene considerato il “padre del Monte Bianco”.
Perché? Il barone von Welden era un militare di carriera: da cattolico aveva invaso lo stato pontificio (“gli ordini sono ordini”) e quindi fu scomunicato da Pio IX. Non fu solo uomo d’arme, ma cartografo, naturalista (scrisse un libro di botanica sul Lago d’Orta) e primo storico dell’alpinismo sul Monte Rosa. Fu lui ad assegnare il nome delle punte ai primi salitori, tranne la Nordend o “punta settentrionale.
Nel 1824 pubblicò a Vienna il libro “Der Monte Rosa” (non ebbe una grande diffusione perché scritto in tedesco con caratteri gotici), poi tradotto in italiano nel 1987 a cura di Enrico Rizzi.
Nel libro c’è tutto: cartografia, storia, natura. Soprattutto la visione delle Alpi nei primi due decenni dell’Ottocento: sguardi tra la fine dell’Illuminismo e la nascita del Romaticismo.
Anche cose curiose che oggi fanno inorridire. È la storia di un piccolo di camoscio addomesticato come un cane: “Mi feci portare dalla valle di Saas un cucciolo che era stato allattato da una capra. Ora ha due anni ed è docile come qualsiasi animale domestico. Mi segue come un cagnolino: ha imparato il suo nome e riconosce le persone che lo accudiscono facendosi amare da tutti per le sue graziose maniere. Apre le porte, se non sono chiuse a chiave. Con la sua voce dolce manifesta la sua gioia e sopporta persino il mio cane purché non si metta a ringhiare”.
Ludwig von Welden (1782 – 1853), alpinista, feldmaresciallo, barone e … addomesticatore di camosci. Quadro nel museo di Graz (da: “Almanacco Storico Ossolano 2022”).
Memorie di viaggio
7. Un canonico e due bicchieroni
Nicolao Sottile, sacerdote valsesiano di idee liberali e sostenitore della politica napoleonica, visitò a lungo nel 1807 l’Ossola accompagnando il prefetto Mocenigo, interessato alla situazione socioeconomica della valle per capire quante tasse potesse offrire. Nel 1810 pubblicò un “Quadro dell’Ossola” che offre memorie puntuali e divertenti. Duecento anni fa, oggi non è più così!
Gli albergatori: “… sanno tirare tutto il partito del loro mestiere; trattano mediocremente, e si fanno pagare bene coi pretesti del dazio di consumo, e dell’arrenamento dei loro guadagni in alcuni mesi. Così il forestiero che passa d’estate paga per quelli che non passano d’inverno… “.
“… Mi trovavo a pranzo con vari forestieri. Il cameriere porta una gallina in salsa dicendo che era un fagiano. La guardo, e riconosco l’impostura: ne avverto la compagnia. Per ventura viene l’oste; l’interrogo, lo obbligo a confessare la verità, ed ingenuamente dice, che il supposto fagiano non era che una bella e grossa gallina.
Così i commensali, ebbero l’ideale piacere di mangiare un fagiano, mangiando una gallina; ed il reale vantaggio di non pagarlo che per una gallina…”.
“… Arrivo sul mezzogiorno in una osteria dell’Ossola superiore, grondante di sudore ed arso di sete. Il padrone era un buon vecchio, mezzo paralitico, di buon umore, pessimo cuciniere ed ottimo oste. Domando due bicchieri con acqua fresca ed aceto; uno per me e l’altro pel mio compagno, volendo mettervi dello zucchero che avevo meco. In quei paesi non si parla di limoni. Come, disse l’oste, ho due bicchieroni? — Bravo, bravo, portateli. Li estrasse da un vecchio armadio, da cui non erano usciti da molti anni. Prendiamo le nostre artificiali limonate, ed ecco che il calore facendo sviluppare l’aria elasticamente concentrata in qualche parte del bicchierone, esso si ruppe e cadde in vari pezzi. Ritorna il vecchio, vede il bicchiere infranto, e se ne lagna.
Non v’è male, mio caro, il denaro accomoda tutto. Pagherò il bicchierone, quantunque si sia rotto da sé.
Oh! oh! questa è bella! Sono vecchio, ma non ho mai veduto un bicchiere rompersi da se solo.
Queste ciancie si dicono ai fanciulli, ma a me!
Appena terminava queste parole, che sotto i suoi occhi, l’altro bicchierone facendo tin, ebbe la sorte dell’altro. Ah! ah! il mio povero bicchierone, vedete ora che non ho mentito, dicendovi che non avevamo rotto l’altro. Saranno brava gente; ma non ho mai veduto rompersi i bicchieri senza toccarli: loro signori sanno qualche cosa, che non sanno gli altri.
Intesi ciò che voleva dire; l’accertai della naturalezza del fatto e pagai largamente… “.
Iselle in Valdivedro agli inizi dell’Ottocento, lungo la strada del Sempione percorsa dai viaggiatori romantici.
I “Sassi di Premia” lungo la strada per la Val Formazza (oggi non esistono più perché “affettati” dall’industria lapidea).
Da: M. Ferraris “Alla scoperta dell’Ossola”, 1975.