Paolo Crosa Lenz       Lepontica/15      Gennaio 2022

 

Sommario
1. Elogio del fagiano di monte
2. Scaviscià
3. Verrà un giorno una gazza…
4. Chi fu Diuco Atlouc, il “molto splendente”
5. Verranno i giorni della merla?
6. I Rodis di Valle Antigorio
7. Scialpinismo sulle Alpi Pennine

 


 

Natura

1. Elogio del fagiano di monte

“Fagiano di monte in parata” (foto di Radames Bionda)

 Tra le numerose specie di uccelli presenti sulle Alpi Lepontine, quattro sono significative in particolare per l’area dell’alpe Veglia e dell’alpe Devero: il fagiano di monte, la pernice bianca, la coturnice e l’aquila reale.
Gli uccelli migratori vanno e vengono: in estate al fresco sul Baltico, in inverno al caldo a sud del Sahara. Loro no, rimangono e si confrontano con le severe condizioni degli inverni alpini. Volano, si nutrono quando non c’è niente, si riparano come possono. Non vanno in letargo (non dicono: ci vediamo la primavera prossima!).
Questo mese vi parlo del fagiano di monte (o gallo forcello come lo chiamano i cacciatori per distinguerlo dal cedrone presente sulle Alpi orientali). Il suo nome scientifico è Lyrurus tetrix. È un tetraonide (ha quattro dita unghiate) che vive a quote elevate nei lariceti radi. Viene considerato un valido indicatore ecologico del livello di degrado sostenibile dall’ambiente alpino: la sua presenza o la sua assenza testimoniano lo stato di equilibrio o di disequilibrio in cui la montagna si trova. La popolazione di gallo forcello assume in Veglia e Devero valori elevati che raggiungono la massima densità di tutte le Alpi.
Per questo sono state condotte ricerche sul campo finalizzate a conoscere meglio alcuni aspetti della biologia ed ecologia di questo tetraonide. Il gallo forcello si nutre di bacche, mirtilli e, in inverno, delle gemme di conifere. Le arene di canto, dove tra aprile e maggio avvengono i riti di corteggiamento, si trovano in radure dei boschi e in luoghi aperti: si pavoneggiano orgogliosi come certa gente il sabato sera! Fra gli ultimi alberi e alla base dei cespugli, vi sono i nidi, dove fra maggio e giugno avviene la posa di 6-8 uova.
Dopo 23 giorni nascono i pulcini, che dipendono dalla madre, protetta dal piumaggio mimetico, per un altro mese. Le variabili climatiche influiscono fortemente sulle popolazioni; la mortalità giovanile può essere molto elevata quando le condizioni meteorologiche sono negative al momento della schiusa delle uova. Anche loro fanno quello che possono: nel loro percorso evolutivo hanno imparato ad adattarsi per sopravvivere agli inverni alpini. Come gli uomini.
I fagiani di monte fanno buchi nella neve che fungono da igloo, nei versanti settentrionali dove la neve rimane polverosa più a lungo e quindi si scioglie anche più tardi, e abbassano il battito cardiaco per consumare meno energia. Basta un volo di elicottero oppure il passaggio di sciatori o ciaspolatori per rompere questo equilibrio delicatissimo.
Se trovate indicazioni per aree di limitata frequenza, accoglietele. Non si tratta di limitazioni alla libertà dell’Homo sapiens. È solo rispetto per altri viventi che, a volte come noi, combattono per la vita.
Le Alpi sono grandi e c’è posto per tutti.

 


 

Una parola al mese

2. Scaviscià

Sono andato con alcuni amici a scaviscià sui monti della bassa Val d’Ossola. Giornata limpida e fredda con il sole ormai scomparso sui versanti al lovik; sono quelli all’ombra, dove per tre mesi non arriva la luce e tu guardi il versante opposto della montagna baciato dal sole e senti ancora più freddo!
Scaviscià nei dialetti della Val d’Ossola vuol dire scoperchiare la ricciaia (la riscéera di cui vi ho parlato lo scorso ottobre) per raccogliere le castagne.
Un rito collettivo e conclusivo che ripagava dei lavori autunnali.
È stato un buon raccolto: i ricci si presentavano molli e anneriti, le castagne ne uscivano facilmente e la leggera macerazione ne assicura la conservazione per una decina di giorni. È stato un lavoro lungo e non semplice: un tempo usavano una mazza di legno e un apposito corto rastrello, noi abbiamo usato i guanti da lavoro e gli scarponi lavorando di caviglia. Un lavoro che richiedeva pazienza e attenzione. Dicevamo: un compito da donne e bambini, mentre gli uomini erano via in emigrazione.
Parlando con i vecchi ho scoperto che a volte, nei cortili delle case contadine, si facevano grandi ricciaie trasportando dal bosco i ricci nei gerli, per poi aprire porzioni di riscèera alla bisogna.
Così si potevano mangiare castagne “fresche” fino a marzo. Castagne, castagne e poi ancora castagne. Era questa la gastronomia contadina.


 

Cultura alpina

3. Verrà un giorno una gazza…

La cultura tradizionale alpina era legata alla terra: una terra “verticale” dove ogni lavoro era più faticoso e incerto. A regolare questo mondo erano codici non scritti e tramandati attraverso leggende e fiabe popolari. Ho studiato per molti anni queste cose e due aspetti mi hanno sempre colpito: l’accettazione del diverso e un rapporto sereno con la morte, considerato accidente del vivere. Una cultura che comunque aveva sempre una speranza. Necessaria in questo avvio di 2022.
Vi racconto questo riportando due fiabe popolari. La prima è ambientata sui monti di Premosello Chiovenda, alle porte della Val Grande. Protagonista è l’uomo selvatico.
“L’om salvagh viveva sulla montagna di Colloro. Era un vecchio solitario e malmesso. Se c’era vento o pioggia non usciva dalla sua tana per settimane e settimane. Dicevano che era un po’ matto, perché voleva insegnare a fare la gomma con il siero del latte. Certe volte andava a far villa con le alpigiane, ma siccome dava fastidio le donne gli hanno fatto uno scherzo. Lui si sedeva sempre su una pietra vicino al fuoco. Le donne gliel’hanno scaldata così si è scottato e non è andato più.
Stava tanto tempo senza farsi vedere da nessuno. Una volta il prete di Premosello, siccome non lo vedeva mai in chiesa, l’ha mandato a chiamare per confessarsi. L’om salvagh è sceso in paese al mattino presto. Il parroco l’ha fatto andare in sacrestia e gli ha detto di togliersi il mantello. Lui non sapeva dove appoggiarlo. C’era un raggio di sole che entrava dalla finestra e l’ha appeso lì. Ed è stato su. Quando il prete ha visto così non l’ha neanche più confessato.”
La seconda fiaba è ambientata sui monti di Ornavasso, montagne che guardano al Lago Maggiore.
“Una giovane pastora andava a fare foglia un giorno d’autunno nel grande bosco del Ragul sulla montagna di Ornavasso. Ad un tratto sentì una voce melodiosa che cantava: ‘Agh gnirà una gaisgia, la purtarà ‘na fraisa …’ (Arriverà una gazza, porterà un seme). Andò in direzione della voce e vide un giovane che cantava mentre stava facendo un mucchio di legna. Sembrava proprio felice. La pastora gli chiese il perché di tanta gioia. Il giovane rispose: ‘Un giorno arriverà una gazza e porterà un seme. Da quel seme nascerà un albero. Quando l’albero sarà maturo, verrà tagliato e con quel legno verrà fatta una culla. In quella culla verrà posto un bambino. Quando il bambino sarà cresciuto, diventerà prete. Il giorno della sua prima messa io andrò finalmente in Paradiso!’”.
Sono certo che per tutti un giorno verrà una gazza!

 

 

 

 


 

Archeologia

4. Chi fu Diuco Atlouc, il “molto splendente”

Recenti rinvenimenti archoelogici rivelano tracce dell’antico popolamento sulle alture del Verbano.
Alle spalle del Lago Maggiore, in età antica, piccole comunità vissero tra i monti della Val Grande e il lago (allora più grande di oggi). Rubo la notizia da un articolo di Elisa Lanza ed Elena Poletti Ecclesia comparso sui “Quaderni di Archeologia del Piemonte 2021”, prestigiosa rivista scientifica pubblicata annualmente dalla Soprintendenza. La scoperta (novembre 2020) di una lastra d

Immagini di Elena Poletti Ecclesia (conservatrice del Museo Archeologico di Mergozzo) e Guido Canetta

i serizzo murata al rovescio (oggi conservata al Museo di Mergozzo) ci dice come si chiamavano gli antichi abitatori dei nostri monti.
Su tre righe; Diuco / Atlouc / s f(ilius). Provo a tradurre in linguaggio comune la complessità interpretativa degli articoli scientifici. Diuco è nome celtico di persona; Atlouc potrebbe significare “molto luminoso” in lingua leponzia. Gli archeologi ipotizzano una datazione della stele funeraria al I secolo d.C.; la forma trapezoidale richiamerebbe alla tradizione leponzia in un momento in cui la “globalizzazione romana” non si era ancora affermata.
Bentornato tra noi Diuco “molto splendente”.
Per chi fosse interessato, il moderno allestimento del Civico Museo Archeologico di Mergozzo offre occasioni straordinarie per un viaggio nel tempo che ci immerge negli albori della presenza umana sui nostri monti.

 

 


 

Tradizioni

5. Verranno i giorni della merla?

Nella tradizione popolare del mondo contadino i ”giorni della merla” sono gli ultimi tre di gennaio. Dovrebbero essere i giorni più freddi dell’anno, le giornate impercettibilmente si allungano e l’inverno è alle spalle; arriva il carnevale.
Da bambini andavamo a scuola imbacuccati in maglie e guanti di lana filati da mamme e nonne. Cantavamo: “Merla, merlascia … stria, striascia” (merla, merlaccia … strega, stregaccia). Un mantra per combattere il freddo. Poi erano scherzi: pacche sulla schiena che attaccavano biglietti con il disegno nero della merla. Un uccello che era quasi un pesce d’aprile.
Le tradizioni popolari italiane dicono che la merla non fu sempre nera.
Un tempo era bianca, ma per ripararsi dal freddo andò sul camino e divenne nera. Cosa non si fa per ripararsi dal freddo. Un freddo che non è detto sia ancora quello di una volta.
I vecchi raccontano che quando è freddo per i giorni della merla, la primavera sarà tiepida e precoce. Se fa caldo, arriverà in ritardo.
Oggi la scienza e i cambiamenti climatici ci obbligano a pensare al freddo come ad un ricordo, alla neve in pianura come memoria.
Gli eventi meteorologici estremi, possibili e che ci coglieranno sempre più alla sprovvista, ci ricorderanno di quanto, tutto sommato, fosse buono il freddo.


 


 

Storia delle Alpi

6. I Rodis di Valle Antigorio

L’alta Val d’Ossola si incunea tra il Vallese e il Ticino svizzeri, delimitata dalle linee di cresta spartiacque che si movimentano in montagne nobili e austere. Come tutte le montagne, non sono solo “nude e fredde rocce”, ma vivono una loro vita storica per ciò che gli uomini danno a loro e da loro prendono. Premia è un “villaggio di passo” che non ha la notorietà della Val Formazza, di Devero, di Veglia.
Recentemente un centro termale funge da richiamo.
La storia di Premia è tuttavia fatta di coordinate attuali: il confine e il passaggio, la frontiera e il superamento di essa, il confronto e lo scontro, la partenza e il ritorno di gente “tenacemente amante de’ suoi monti”.
Pochi giorni fa, l’amico storico Enrico Rizzi ha dedicato un bel libro (“I de Rodis e Premia”, Grossi, Domodossola, 2021) che racconta la storia di una famiglia feudale alpina negli ultimi tre secoli del Medioevo.
Il libro è interessante in quanto illumina un periodo di “Alpi aperte”, prima della chiusura imposta dalla piccola età glaciale nei secoli successivi. Scrive Rizzi: “De Rodis, un’antica dinastìa di rustica nobiltà sbocciata in un angolo dell’Ossola, nella valle di Premia.
Una storia di ‘valvassori imperiali’, di cavalieri e di dame, di uomini d’arme e di vescovi, di podestà e di abati, di governatori di valli lontane e di gentildonne votate all’assistenza dei pellegrini, di intraprendenti mercanti, di colonizzatori alpini… Una storia di strade che risalgono le valli e i passi e s’intrecciano tra loro.”
L’ospizio di San Bernardo (il monumento esiste ancora) ospitava i pellegrini che dall’Europa centrale, attraverso l’alto valico del Gries, scendevano a Roma e poi tornavano a casa. Un Medioevo “in cammino”.
Racconta una cronaca: “La gioia dell’arrivo all’ospizio, l’apparizione improvvisa della chiesetta di pietra tra il verde dei faggi, sotto il cielo cristallino in un anfiteatro di monti. La gioia, dopo aver provato la fatica del viaggio, che coglieva lungo il sentiero il corteo serpeggiante dei pellegrini. La campana dell’oratorio che suonava a perdifiato dopo il silenzio dell’inverno, ma appena riusciva a incrinarlo il grande silenzio che colmava la valle.”

 


Montagna

7. Scialpinismo sulle Alpi Pennine

Ritengo lo scialpinismo una delle cose più belle del mondo. Salire le montagne con le proprie gambe e scenderle con gli sci. È l’unione di due parole: alpinismo (l’arte di scalare) e sci (l’arte di sciare sulla neve).
Lo scialpinismo non ha niente a che fare con lo sci alpino (piste di sci a pagamento, discese su neve battuta, risalite su impianti meccanici, bar e ristoranti, la musica forte sulla seggiovia). Lo scialpinismo è tutto il contrario: fatica, solitudine, silenzio, natura.
Gli inverni alpini non sono più quelli di una volta: si mettevano le pelli a febbraio e si toglievano a maggio. Eppure la montagna invernale offre a tutti spazi nuovi per grandi avventure.
Tre amici (Gabriele Tartari, Riccardo Vairetti e Giancarlo Zucchi) ci credono tanto da scrivere una guida straordinaria (“Ossola – Scialpinismo senza confini” Idea montagna, 2021) che offre 132 itinerari scialpinistici nelle valli Strona, Anzasca ed Antrona. Nei prossimi tempi usciranno altri due volumi dedicati alle restanti porzioni dei monti dell’Ossola e del Verbano.
Sono passati quarant’anni dalla prima guida di Loris Bonavia e Mauro Previdoli (“Scialpinismo in Val d’Ossola” Grossi, Domodossola, 1980).
Sono cambiate le montagne e il modo di frequentarle. È cambiata soprattutto l’etica degli alpinisti. Condivido l’appello degli autori: “Vorremmo inoltre prendere posizione e fare un accorato appello ai diversi Enti competenti, per abbandonare definitivamente la pratica dell’eliski, esclusivo interesse e profitto di pochi e causa di disturbo per tutti. In tal senso, auspichiamo che questa guida possa essere un modesto contributo alla scoperta invernale di questi bellissimi luoghi e verso forme di turismo più a misura d’uomo, in sintonia con il territorio e, soprattutto, nel rispetto dell’ambiente.
Da ultimo la considerazione che la montagna innevata è ancora in grado, oggi più che mai, di essere terreno dove esercitare, tra l’altro, il rispetto e l’umiltà, dove silenzio e senso di isolamento possono ancora essere dominanti.”