Paolo Crosa Lenz       Lepontica/20      Giugno 2022

Sommario

1. Elogio del Cistella
2. Béisa
3. La Società di Scienze Naturali del VCO ha compiuto vent’anni
4. Gli “alpi dei disperati”
5. Il “Trofeo delle Alpi”
6. Gianni Maierna
7. Diego Caretti


Montagna

1. Elogio del Cistella

Il massiccio del Monte Cistella (2880 m) si trova in straordinaria posizione baricentrica nel cuore del sistema di valli dell’Ossola. È una delle montagne più belle dell’Ossola, celebrata da poeti e scrittori, meta ambita e frequentata dagli escursionisti ossolani. Scrive Renato Armelloni, compilatore delle guide CAI – TCI: “Questa disposizione così originale lo fa rassomigliare a un vulcano spento, e anche a una nave gigantesca di cui il corno sarebbe la prora, la cima il castello di maestra, e il piano ne sarebbe il ponte”.
Tanto scoscesi e dirupati sono i suoi versanti, ardua e faticosa la salita, tanto è ampio e maestoso lo scenario offerto dalla vetta. In una giornata limpida, lo sguardo spazia dalle Lepontine occidentali ai giganti dell’Oberland, dal Monviso all’Adamello, mentre a sud si apre la piana dell’Ossola, il Lago Maggiore e la pianura infinita. Il Cistella è visibile un po’ da tutta l’Ossola e la montagna è salita ogni anno da centinaia di escursionisti attratti dalla sua mole massiccia e inconfondibile; alcuni la salgono alla ricerca di minerali (cristalli di quarzo, epidoto e pirite), altri per visitare i luoghi di leggende arcane e misteriose. Giovanni Alvazzi scriveva nel 1913: “La fantasia popolare vede facilmente le streghe dappertutto ove la natura è selvaggia e poco abitata. Abbiamo perciò il lago delle streghe, il piano delle streghe, il passo delle streghe, ecc. Ma dove le streghe abitano di preferenza è al Cistella. Lassù stanno a loro agio, colle chiome al vento da nessuno disturbate; là si aggirano di nottetempo in misteriose processioni; lassù stendono il loro bucato, e si abbandonano a danze vorticose con i cornuti stregoni”.
Questa montagna stregata che sembra una nave va tuttavia salita a fatica: da Crodo sono 5 ore e 1679 m di dislivello. In anni recenti l’ascensione al Cistella è stata resa più agevole dalla realizzazione della seggiovia del Dosso (2250 m) sopra Ciamporino con accesso da San Domenico, che permette di risparmiare 1.000 m di dislivello. L’itinerario segnalato porta a raggiungere prima il Pizzo Diei e quindi scendere al piano di Cistella Alto per il quale si raggiunge la vetta.
Poco sotto vi è il rifugio “Giovanni Leoni”, voluto nel 1901 dal poeta dialettale Torototela.
Lo volle per poter contemplare il tramonto del sole e il sorgere dell’alba dalla vetta di una grande montagna. Un rifugio contemplativo su una montagna contemplativa.
Il Monte Cistella dall’alpe Alagua; il percorso attrezzato della “costetta” lungo la salita da Crodo. Il rifugio “G. Leoni” al Cistella nei primi anni del Novecento; a sinistra la mole del Monte Leone.

 


Una parola al mese

2. Béisa

 

Béisa è parola walser intraducibile in italiano. Nella lingua di Ornavasso è fa bèisa (scomparso il verbo tedesco e sostituito con la corruzione di “fare” con il vocabolo béisa che esprime un comportamento). Il comportamento è l’irritazione di mucche e vitelli quando, nelle calde e umide giornate estive negli alpeggi bassi della valle del Toce, non sopportano le mosche e i tafani che le pungono.
Muovono nervose la coda e scalciano, saltando quasi su se stesse. Così le pastore le richiudevano in stalla, ospizio di pace e refrigerio. Accade anche a noi, donne e uomini infastiditi dal mondo e dalla vita.
C’è un libro straordinario scritto da Virginia Paravati (Aspettando la luna nuova, Alberti, 2007) che racconta la memoria degli alpeggi della Bassa Ossola. L’ha scritto ascoltando le ospiti della Casa dell’Anziano di Ornavasso.
Sono vite di fatica di donne che alla fine restituiscono una memoria preziosa di un “mondo perduto”. Una per tutte. La Mariuccia Rossi ricorda: “Guarda che avevano su anche due manzét, che portavano fuori a pascolare alla mattina presto e alla sera par mia fagh fà béisa. Vuol dire ‘non farle arrabbiare’, perché quando c’era il sole alto arrivavano tante mosche che davano fastidio e facevano arrabbiare le bestie. Così alla sera i pregàvan santa Staséa, santa Anastasia, e dicevano: ‘Santa Staséa disvigèm prèma d’I’Ave Marea’, proprio per evitare di restare addormentate e portare fuori per tempo e ora i manzét. Anch’io, che sono del ‘27, da bambina ho fatto ancora quella vita, anzi quella vitaccia, considerando le fatiche che facevamo, anche se io non andavo su da sola ma con una zia. Ai tempi di quando era giovane la mia mamma, lei e sua sorella stavano sole su all’alpe magari per quindici giorni e così alla sera scendevano al Bach di sotto, lì c’è una montagnetta dove si vede tutto il paese. Allora loro prendevano un lenzuolo bianco che avevano portato dietro e lo sventolavano, la mamma da casa rispondeva sempre sventolando un lenzuolo e così sapeva che stavano bene.”

Una mucca placida in Valle Antigorio prima della béisa.


 

Natura

3. La Società di Scienze Naturali del VCO ha compiuto vent’anni

La SSN VCO è stata fondata nell’ottobre 2001 da 13 soci appassionati di scienze naturali. In questi due decenni i soci sono aumentati ed oggi la SSN raccoglie un ampio ventaglio di competenze naturalistiche, dalla flora alla fauna alle scienze della Terra. Puntuali e di rilievo sono sempre stati i convegni annuali di studio su vari aspetti della Natura.
Mi raccontano le amiche Lucia Pompilio e Luisa Erra, presidenti storiche della SSN VCO: “Fin dall’inizio ci siamo posti l’obiettivo di valorizzare e tutelare la biodiversità floristica e faunistica e la ricchezza paesaggistica delle Alpi Pennine e Lepontine e del bacino del Lago Maggiore attraverso attività divulgative, di ricerca e consulenza tecnica dei nostri soci. Siamo convinti che la raccolta dati e la conoscenza scientifica siano alla base delle buone pratiche per la gestione del territorio.”
Preziose sono le banche dati faunistica e floristica provinciali, costantemente aggiornate e ampliate.
Esse sono di pubblica consultazione e scaricabili dal sito http://www.scienzenaturalivco.org/index.html che offre anche tutte le relazioni scientifiche dell’attività di ricerca e divulgazione.
Importanti sono gli “atlanti”: della fauna, degli uccelli svernanti, delle felci, degli odonati (sono le libellule).
La scienza al servizio della gente e di chi studia. Altro meritorio impegno della SSN è la consulenza scientifica del museo di scienze naturali presso l’Istituto Mellerio Rosmini a Domodossola, da oltre un secolo punto di riferimento di scienziati e appassionati.
Alla base dell’impegno volontario dei membri della SSN c’è un “imperativo etico”: i dati di presenza e il monitoraggio continuo sono la base di partenza per ogni azione efficace sia essa divulgativa che conservazionistica. Sono inoltre una dote di conoscenza e professionalità che permette di essere supporto per chi è chiamato a gestire il territorio e a fare scelte di tutela.

 

 

 

 


Montagna

4. Gli “alpi dei disperati”

A Premosello, proprio dove inizia la strada per Colloro, una scultura di granito raffigura un alpigiano con la sua capra: il volto è rivolto in alto, verso quella montagna che si perde nel cielo, fonte di fatica ma anche di vita. I colloresi furono gli ultimi pastori a inalpare l’alta Val Grande (in Val Gabbio, in Valrossa, in Portajola e in Serena), resistendo lassù anche quando i malisch (i pastori vigezzini di Malesco) e i truntàn (quelli ossolani di Trontano) se ne erano già andati. Spinti da una strenua e infinita fame d’erba, i pastori di Premosello e Colloro continuarono caparbiamente a “caricare” quegli alpi lontani e poveri fino agli anni ‘50 e ’60 del Novecento. Mi ricordava tempo fa l’amico Pierantonio Ragozza: “Non tutti gli alpi sono uguali: ci sono quelli ricchi e facili e ci sono quelli dei disperati”. Sopra Premosello l’alpicoltura, attività povera di uomini poveri, era ancora più povera: non i grandi alpeggi di Trontano o Beura, le distese d’erba della Vigezzo, ma piccoli alpetti incollati alla montagna, casere incassate fra i dirupi; non prati, ma scivoli d’erba che per lo sfalcio richiedevano doti di equilibrismo. “Le nostre erano mucche alpiniste. Le allenavamo già da manze”. Ricorda un alpigiano di Premosello.
L’alpe Stavelli, Stavéi, è un po’ il simbolo dell’alpicoltura di questi villaggi, anche se è un paradiso rispetto ad altri “alpeggi estremi”, abbandonati da oltre mezzo secolo e a cui non porta più alcun sentiero. A 1493 m di quota, sul ripido pendio che precipita dalla Colma, Stavéi è un pugno di rustici in precario equilibrio su uno scivolo d’erba. Lungo il pendio, mucchi semicircolari di sassi accuratamente impilati (come nuraghe alpini) sono il frutto dello spietramento del pascolo. I pastori tolsero i sassi per guadagnare pochi centimetri quadrati d’erba e per permettere un miglior lavoro della ranza, la falce fienaia, durante lo sfalcio. Solitamente in montagna i sassi derivati dallo spietramento vengono gettati alla rinfusa in mucchi informi che si notano nei pascoli o al loro margine.A Stavéi hanno dovuto impilarli perché diversamente sarebbero rotolati a valle.
Salendo alla Cima Saler, al Curtett, una decina di rustici in larga parte degradati, il senso dell’abbandono è forte. Le porte aperte delle baite lasciano intravedere gli oggetti di una vita d’alpeggio che sembra finita in un attimo.
Una roncola arrugginita, uno sgabello per la mungitura, una cassapanca sfondata, una scodella sbrecciata. È come se l’ultimo pastore avesse detto “Basta!” e d’improvviso fosse sceso a valle. Senza più tornarvi.
Le alte case di Sastermi (Sasso Termine), l’abitato più alto del corte di Capraga, sopra Colloro. I balconi coperti permettevano l’essicazione di fieno, castagne e meliga nelle piovose giornate d’autunno.

 


Archeologia

5. Il “Trofeo delle Alpi”

La Turbie è un comune francese di tremila abitanti, poco distante da Ventimiglia.
In archeologia è importante perché vi è il “Trofeo delle Alpi” che celebra la vittoria di Augusto su 44 popoli alpini (tutti nominati uno per uno) al termine delle guerre che durarono dodici anni tra il 25 il 13 a.C. I romani chiamavano la catena montuosa nel cuore dell’Europa “infames frigoribus Alpes”: ostacolo al transito di merci ed eserciti e “fredde”. Il monumento fu eretto nel 6 a.C. per celebrare Augusto, “pacificatore” delle Alpi e per XIV volte proclamato imperatore.
Il monumento (35 m di altezza per 38 di larghezza) fu eretto lungo la via Julia Augusta tra la Gallia cisalpina e quella transalpina, tra il mare “inferiore” (il Mediterraneo) e quello “superiore” (Il Mare del Nord). Nel momento dell’istituzione dell’Impero, nel cuore di esso, rimaneva un “cancro”: la libertà dei popoli alpini.
Essi non sferravano attacchi per impossessarsi delle merci, ma una volta entrati nel loro territorio, imponevano un controllo delle relazioni commerciali e dei movimenti militari inaccettabili per Roma.
Andavano sottomessi. Ad ogni costo. Sul monumento sono citati anche i Leponti, gli abitatori della mia terra duemila anni fa.
Sono raffigurati incatenati ai piedi dell’imperatore, prigionieri ma non domi, hanno barbe lunghi e sguardi fieri.
Amo sognare per la mia gente: ieri come oggi. Dalla cima del monumento (oggi visitabile e restaurato) si vede il mare. Un mare che forse quei popoli non avevano mai visto.
Da qui è passato anche Dante in un suo viaggio a Parigi nel 1302: “Tra Lerici e Turbia, la più diserta/ la più romita via è una scala/ verso di quella agevole ed aperta”. (Purgatorio III, 49-51).
Lo dice a Virgilio quando giunge ai piedi della montagna del Purgatorio, erta e scoscesa come le scogliere della Liguria. Mi verrebbe da dire: come le Alpi.


Il “Trofeo delle Alpi” a La Turbie; schnabelkanne di bronzo (vaso a becco per mescere) di importazione etrusca da una necropoli lepontica in Canton Ticino; elmo di guerriero lepontico; gioielli dei Leponti da necropoli della Val d’Ossola con braccialetti a meandri di stile vallesano.


Personaggi

6. Gianni Maierna (1925 – 2017)

Figlio di una famiglia operaia e antifascista di Intra, primo di sei fratelli, Gianni Maierna fu partigiano, militante prima del PCI e poi di Rifondazione Comunista, grande disegnatore satirico.
Dopo l’8 settembre 1944 costituì con altri il GAP di Intra (Gruppo di Azione Partigiana): i “resistenti” che combattevano clandestinamente in città, non protetti dalla montagna. Nell’autunno 1943, studente all’Istituto Tecnico “Cobianchi”, di notte e violando il coprifuoco dipinse sul muro della scuola le scritte: “Abbasso il duce! Abbasso il re” e disegnò falci e martello. Fece anche un murales “Studenti non siate il fieno dell’asino di Predappio”. Lui, che non sparò mai un colpo, aveva nella matita il dono dirompente del coraggio e della ribellione.
Nel 1948 fu guardia del corpo di Palmiro Togliatti quando, dopo l’attentato, trascorse la convalescenza di nascosto in Val Vigezzo. Lavorò alla Rhodiatoce di Verbania e fu discriminato per la sua partecipazione alle lotte operaie per miglioramenti salariali. Nel secondo dopoguerra fu amministratore di Verbania per molti anni, attento ai giovani e alle periferie. Fu dirigente dell’ANPI di Verbania, fu fondatore della “Casa della Resistenza” di Fondotoce, portatore di una memoria ferma e sempre propositiva. Mi onoro di essergli stato amico.
La sua potenza artistica, frenata dai tempi della storia, sta emergendo forte in questi anni.
Lavorando in officina, disegnava i cartelli per i cortei operai: uno, portato nelle lotte operaie della Montefibre (1969-1970) disegnava un uomo in barca con issata una vela (trinchetto); era chiaro il riferimento al direttore dell’azienda che veniva paragonato al “Capitan Trinchetto”, il personaggio del Carosello televisivo che rappresentava un marinaio noto per le sue storie esagerate che una voce fuori campo ridimensionava con le parole “Cala, cala”.
Una mostra alla “Casa della Resistenza” di Fondotoce (“Schegge di memoria”) presenta 130 disegni, 80 anni di vignette per una visione critica e satirica della nostra storia recente. Il disegno di copertina reca una pipa, simbolo di pacata riflessione, da cui escono colombe bianche.

 


Personaggi

7. Diego Caretti (1939 – 2020)

Diego Caretti fu uomo di montagna, quei monti impervi dell’entroterra verbanese, tra la dolcezza del Lago Maggiore e l’asprezza della Val Grande.
Come molti della sua generazione, per “sbarcare il lunario” da giovane fece il manovale in Svizzera e anche lo “spallone” (il contrabbandiere di sigarette). Poi divenne pioniere del sindacalismo cattolico nel Verbano e segretario territoriale della CISL. Fu l’impegno di una vita (“sindacalista di frontiera e tra gli ultimi”), come il mio amico Bruno Lo Duca della CGIL. Negli anni del boom economico, quando diritti minimi non erano riconosciuti, quegli uomini ebbero visioni e coraggio per immaginare un futuro migliore per tutti. È una storia tutta ancora da scrivere. Con nomi e cognomi.
Battaglie vinte ed altre perse.
Penso agli scioperi delle “fabbrichine” (le ragazze scese dalle valli per lavorare le pietrine per orologi ad Ornavasso). Rivendicazioni salariali a molte di loro costate care e pagate con il licenziamento e nate negli ambienti cattolici dell’oratorio.
Questa primavera, amici e parenti di Diego hanno piantato in sua memoria un acero rosso a Verbania,la città dove spese il suo impegno sociale. L’iniziativa è stata promossa dalla Cisl e da Anteas, benemerita associazione di volontari a servizio degli anziani e di inclusione sociale coordinata dall’amico di avventure alpine Irmo Caretti.
L’acero è una pianta nobile, ha radici profonde e cresce in alto, guarda al cielo. Sui nostri monti cresce nel bosco misto di latifoglie, ma ne esistono rari boschetti puri. Pochi li conoscono, ma incontrarli è una meraviglia. Così come sarà salutare quell’albero a Verbania.