Paolo Crosa Lenz       Lepontica/26      Gennaio 2023

Sommario

1. Corte Buè
2. Baiorda
3. Elogio della marmotta
4. La Madonna delle valanghe
5. Gaetano Saglio (1903 – 1924)
6. Il CAI per la scuola, una prospettiva di futuro
7. Una morale per “l’andare per monti”


Alpeggi di Valgrande

1. Corte Buè

 

Corte Buè (888 m) è una grande corte sul versante nord-orientale dei Corni di Nibbio. I rustici e i prati ormai inselvatichiti sono distribuiti su un pronunciato costolone di fronte ai corti di Velina a ricevere il primo sole del mattino. Simmetricamente a Velina, Corte Buè era l’ultimo avamposto di stabili e consistenti insediamenti umani sulla destra orografica della bassa Valgrande. A sud di Buè, una estesa fascia di prati, pascoli, boschi governati, corti abitati per lunghi mesi dell’anno. A nord di Buè, la selvaggia e dirupata Val Fojera (un vallone dove non si vede il cielo), faggete senza fine, rocce e gole profonde; lontano, il torrente corre tortuoso incontro alle strettoie dell’Arca.
È la Valgrande selvaggia e inospitale. A sud, sentieri ancora percorribili, ampie strà di vacch che, nonostante il lungo abbandono, conservano ancora la cura dei manufatti di queste antiche “autostrade” (la direttrice da Bignugno a Buè è un capolavoro di viabilità alpina). A nord la montagna si è riappropriata di tutto, ingoiando le piste tracciate dai boscaioli durante gli ultimi disboscamenti oltre mezzo secolo fa. I Corni di Nibbio sono il regno dell’aquila e delle poiane. Nei boschi ospitali e fra i dirupi a nord di Buè, consistenti gruppi di camosci vivono liberi e sicuri.
Quella di Buè è una delle tante storie della Val Grande. Storie di lotte e di fatiche, di diritto alla vita conquistato ogni giorno, di soprusi e di pretese negate. Storie che si ripetono spesso uguali, eppure diverse.
Questi sono luoghi di insediamenti molto antichi. Già un documento del 1254 parla di questi costoloni scoscesi raccontando l’accordo per l’uso delle risorse del monte Pigio, oggi il “Pizzone” tra Buè e Ompio. È un accordo tra le cinque comunità di Valle Intrasca (Santino, Rovegro, Suna, Bieno e Cavandone) e quelle ossolane di Bracchio e Mergozzo. Stabilisce l’uso comune del pascolo e lo sfalcio dell’erba per tutte le comunità, mentre il taglio del bosco (diritto di buscare) era riservato a monte agli uomini di Bracchio Mergozzo, mentre a valle del Pigio a quelli di Valle Intrasca. Erano anni in cui il possesso del territorio montano era comunitario e le singole vicinie dissodavano, con enormi sforzi collettivi, piccole radure nella foresta sconfinata. Fu nei secoli successivi, dal XV in poi, che le proprietà comunitarie si trasformarono nel possesso dei particolari che vi costruirono baite, casère e stalle. Con l’inizio dei disboscamenti (dalla fine del XIV secolo) queste zone vennero costantemente e sempre più capillarmente frequentate. Fu l’inizio di contese sempre continue e periodicamente esplodenti tra la Fabbrica del Duomo, che proteggeva i propri diritti di esbosco, e i montanari delle comunità d’Intrasca, che erano spinti ad espandere lo spazio del pascolo; anche con la pratica di deruscare (scortecciare) i faggi per farli morire. Anche i luoghi più impervi vennero frequentati.
Oggi Corte Buè può essere raggiunto lungo quattro sentieri: dalla Colma di Vercio, da Ompio per l’itinerario classico per Buè, da Ompio scendendo a Basseno, da Bignugno lungo l’itinerario della transumanza da Rovegro. Tutti portano a Buè. Oltre c’è la Valgrande infinita.
A Buè gli amici del “Gruppo Escursionisti Val Grande” hanno recuperato una vecchia baita e l’hanno adibita a bivacco sempre aperto, luogo sicuro ed ospitale per gli escursionisti che si avventurano in quelle lande selvagge.

 


Una parola al mese

2. Baiorda

Ricordate quando nevica e non vuole nevicare, il cielo è grigio e fa freddo. Non capisci cosa sta per succedere. È lì che arriva la baiorda, fiocchi piccoli e radi di neve gelata che volteggia nell’aria e si dissolve al suolo. Non è acqua, non è neve, non è niente. Promette neve, ma non sempre mantiene.
La aspetta chi ha bisogno di neve, la teme chi di neve ne ha troppa. Non è nevischio, neve mista ad acqua che viene di traverso portata dal vento. È solo baiorda. La annusi e senti profumo di inverno. Un profumo che sta scomparendo.
Quando arriva la baiorda, gli animali selvatici la annusano e si mettono al riparo. Aspettano che passi.
I vecchi la chiamano anche “rabbia di vento”. Quando, tanti anni fa, andavo a scalare anche in inverno, la baiorda portava male, voleva dire che poteva nevicare e dovevi pensare a tornare a casa.
Da dove viene questa parola usata solo in Val d’Ossola.
L’amico Silvano Ragozza, il massimo conoscitore dei nostri dialetti e impegnato da decenni in un’epica impresa di redazione del vocabolario comparato dei dialetti ossolani, mi viene in aiuto.
Baiòrda “bufera di neve, tormenta” corrisponde a bùrda, che troviamo nella bassa valle Ossola (bùarda a Colloro) con lo stesso significato. La base dovrebbe essere un tema *BORD di origine oscura, su cui sono state fatte varie ipotesi. Nel “Dizionario dei dialetti dalla Val Tartano” (di G. Bianchini e R. Bracchi) trovo, alla pag. 137, sotto burdulòk “grosso insetto” che “la voce appartiene a una vasta famiglia semantica che comprende insetti, animali, streghe, demoni, fenomeni atmosferici (lomb. borda “nebbia”) e che va probabilmente ricondotta ad antichissime concezioni totemiche”. Sotto la stessa voce viene proposto un etimo prelatino *BORDA “bestia gravida” (dall’indoeuropeo *BHER “portare”, da cui il lat. fero e l’ingl. to bear). “come rappresentazione teriomorfa delle nuvole cariche di pioggia” (Remo Bracchi). A questo etimo (aggiungo io) potrebbe risalire il maleschese burdàgn “polla d’acqua”. Nei dialetti ossolani troviamo bórda “coleottero” (Montecrestese); burdüra “animale fantastico che vive lungo i corsi d’acqua e che rapisce i bambini” (Vanzone); budìy, burdìy “baco, vermiciattolo”, bùrda d’ vènt “tipo di vento”.

 


 

Natura

3. Elogio della marmotta

C’è un animale che in inverno esiste, ma non si vede. Riposa un sonno profondo in tane sotto terra, ogni tanto si sveglia, poi si riaddormenta.
È la marmotta alpina (Marmota marmota), perfettamente adattata a sopravvivere alle condizioni estreme degli inverni in quota.
Agli inizi dell’autunno, rispondendo agli impulsi di un “orologio interno”, la marmotta si ritira nella tana dove dorme in una camera principale.
Come in ogni buona famiglia, strette le une accanto alle altre. Mi spiega l’amico naturalista Radames Bionda: “I gruppi familiari di marmotte sono in genere formati dai due adulti che si riproducono e dai figli di diverse generazioni, perché i piccoli che vengono prodotti ogni anno sono pochi.
Gruppi numerosi sono importanti proprio per la sopravvivenza dei piccoli durante il letargo.
Quando la temperatura all’interno della tana scende troppo gli adulti e i subadulti si svegliano e rimangono nella tana, e con la loro attività determinano l’aumento della temperatura all’interno della tana stessa, permettendo ai piccoli (che hanno minori accumuli di grasso rispetto agli altri animali che sono più grandi e hanno potuto sfruttare tutta la bella stagione per ingrassare) di “dormire sonni tranquilli” senza bruciare grassi per il risveglio”.
Meraviglia di un adattamento specializzato. Poi in primavera riprende un’intensa vita sociale fatta di bagni di sole, raccolta di cibo per accumulare grasso mentre una “sentinella” vigila sulla famiglia emettendo il tipico fischio (in realtà un “grido” laringeo) per avvisare la famiglia di un pericolo che viene da terra o dal cielo. Al contrario di noi, la marmotta ingrassa in estate e dimagrisce in inverno. Il mese “magico” della marmotta è aprile quando, dopo il risveglio, avviene la riproduzione e dopo una gestazione di circa 34 giorni; nascono generalmente da due a quattro piccoli del peso di circa 30 g. Altro che “aprile, dolce dormire”.

Foto: Radames Bionda


Poesia

4. La Madonna delle valanghe

Remigio Biancossi fu prete e poeta. Ne ho già parlato su queste righe e a lui ricorro ogni tanto a rileggere pensieri inusuali.
Il Remigio fu prete alpino nei Balcani, poi cappellano in 27 campi di concentramento, maestro d’organo e poi “in castigo” in una remota valle alpina.
Nel 2017 ho curato, nel centenario della nascita, un’antologia di suoi scritti per l’amico editore Alessandro Grossi. Nel 1988 Remigio Biancossi pubblicò un piccolo libro di raccolte poetiche (Fiori di roccia ossolana e oltre) da cui traggo questa poesia. Premetto che la Val d’Ossola, come tante valli alpine, è piena di “Madonne delle nevi”, venerate in santuari e oratori a cui ricorrere quando piove troppo o non piove mai.
Una volta in montagna la pioggia,in inverno, era neve. “Sotto la neve, il pane”. Noi, vecchi alpinisti, dopo una vita a frequentare i monti anche in inverno, sappiamo che qualche volta una “Madonna delle valanghe” ha guardato giù.
C’è, sperduta in alta val Bognanco, una povera e striminzita cappelletta dedicata ad una “Madonna del lavancaro”, una Madonna delle valanghe. Lì andava, ogni tanto, il mio amico Remigio Biancossi a pregare. Tanto che gli ha dedicato una poesia.

“Madonna delle valanghe”

Non è contemplato questo titolo nelle litanie e nemmeno negli annosi cantorali nell’ombra dei cori.
Ma noi, ossolani nati e cresciuti tra queste balze, ben ci è noto
il fragoroso turbine delle valanghe. A questa cappelletta delle valanghe, sperduta in cima a valle Bognanco, si raccolgono, devote, le mani ed i cuori, come in un tramonto d’amata solitudine, Madonna delle valanghe.
E’ una scabra cappellina; quasi selvaggia
con due ceri dalle borchie di cera,
per devozione accesi da ignoti durante l’anno, qui dove d’inverno scendono ruglianti
le valanghe che si divisero per salvare un cacciatore atterrito da quel fragore,
qui dove bramisce lo stambecco el tardo autunno quando la montagna spaventa.
E’ proprio nella solitudine che parla
i pellegrini attendono da te, Madonna dei sovrumani silenzi
una tua carezza per salvarli dal male e ti promettono,
madre delle nevi, una sincera risposta.

Foto a sx: Madonna della Neve (foto Susy Mezzanotte); in alto: il taglio della valanga

 


Personaggi

5. Gaetano Saglio (1903 – 1924)

Di Gaetano Saglio conosco poco o niente. Rimane una tomba nel cimitero di Ornavasso che i miei figli sanno riconoscere perché andavano con la nonna ad ascoltare le storie di famiglia, quasi Ugo Foscolo avesse insegnato qualcosa. I bambini volevano andare su quella tomba, perché lo “zio Gaetano” (fratello di mio nonno) sembrava Zorro. Morì a 21 (ventuno) anni mentre pilotava un idroplano nel mare di La Spezia.
Siamo agli inizi dell’aviazione in Italia e in Europa.
Prototipi incerti che partivano dal mare, naturale pista di decollo, e lì atterravano. Prima degli aeroporti. Ragazzi come prototipi.
Lo vedo questo ragazzo ventenne, con gli occhiali e il vento sul volto, i denti stretti a sfidare il cielo e il mare. Lo sguardo sorridente pieno di coraggio e i baͿetti da sparviero. Poi la fine in mare.
Oltre la tomba, rimane un “santino” che recentemente un amico collezionista di preziose antiche carte mi ha donato.
C’è l’immagine fiera di un ragazzo aperto alla vita, la retorica di un regime nascente, la sacralizzazione di una morte per alleviare un dolore. Sul retro c’è scritto: “Gaetano Saglio Soldato nella Ra Aeronautica / ove presso commilitoni e superiori / godeva grande stima e amore / allenandosi sul suo idroplano / per futuri destini della Patria / tragicamente periva nel mare di Spezia / il 25 luglio 1924 nella fresca età di anni 21. / Anima bella di cristiano e soldato / rimane esempio / ai compagni del circolo di S. Nicolao
/ ai quali gloriava di appartenere / e ai giovani tutti. La famiglia dolentissima volle che la salma del suo diletto estinto fosse sepolta nel patrio cimitero. Requiescat in pace. Ornavasso, agosto 1924.” Amen.

 


Montagna

6. Il CAI per la scuola, una prospettiva di futuro

L’autunno scorso, ma l’iniziativa dura tutto l’anno scolastico, nelle scuole del Verbano Cusio Ossola, si è svolto “Il CAI per la scuola” che ha visto 800 studenti camminare nella natura per imparare a rispettarla.
“Camminando s’impara”. È stato un impegno gravoso, ma di enorme soddisfazione per gli operatori volontari del CAI che hanno messo conoscenze ed esperienza al servizio di docenti e studenti. I numeri del monitoraggio sono confortanti per una nuova visione attiva del mondo delle “terre alte”: 11 istituti scolastici coinvolti, 48 classi, 71 docenti, 787 studenti, 64 operatori CAI giornata.
Dai bambini della scuola materna di Mergozzo in cammino sul lago, agli studenti delle elementari di Anzola sui monti di Ornavasso, alle scuole medie di mezza provincia che sono andati a scoprire sentieri antichi percorsi dai loro nonni e a distinguere un castagno da un faggio, ai “grandi” delle superiori (il liceo “Spezia” o il “Marconi Galletti” di Domodossola) che hanno camminato per studiare come costruire un equilibrio nuovo con l’ambiente naturale.
Ho partecipato con entusiasmo e orgoglio all’iniziativa perché il coinvolgimento dei ragazzi è fondamentale per costruire una nuova consapevolezza sociale diͿusa sulla necessità che ogni prospettiva di sviluppo economica sia coerente con il rispetto della natura.
La tutela dell’ambiente montano, per noi che viviamo e ci auguriamo continuino a vivere i nostri figli e
nipoti, è una priorità assoluta del nuovo corso del Club Alpino Italiano.
L’iniziativa è stata coordinata dalle 17 sezioni “Est Monterosa” del CAI VCO e Novara che rappresenta 12.000 soci.
Due amici, Bruno Migliorati (presidente CAI Piemonte) e Raffaele Marini (presidente nazionale Tutela Ambiente Montano del CAI) mi confermano questi valori: “Dobbiamo sempre più affermare il vero concetto di sostenibilità che si poggia su tre dimensioni ben definite e non comprimibili: ambientale, economica e sociale. Chi saprà e vorrà interpretare correttamente queste tre dimensioni potrà consegnare alle generazioni future un mondo, nel nostro caso una Montagna, vissuto e non usato.”


Escursionismo

7. Una morale per “l’andare per monti”

Disse un poeta: “Se gli uomini camminassero di più il mondo sarebbe migliore”. Il mio amico Gianpaolo Fabbri, con cui condivido un’amicizia “antica” e fertili discussioni sull’etica e la morale dell’andare per monti, ha scritto un libro in cui racconta 81 gite tra Italia e Svizzera. Non descrive storia e natura, ma narra esperienze individuali e collettive. Le montagne non hanno confini stabiliti dagli Stati, ma coordinate geografiche date dalla terza dimensione, quella della verticalità. Ha effettuato queste gite in larga parte con i Murmata (in walser sarebbero le “marmotte”), uno dei tanti gruppi informali che camminano ogni settimana in montagna: una fatica comune che cementa amicizie buone. Questi gruppi ci sono un po’ in tutti i comuni del Piemonte spesso indipendenti dalle iniziative del CAI ma, come uomo del Club Alpino Italiano, mi viene da dire con orgoglio che in quasi 160 anni di storia qualcosa
di positivo è stato seminato. La montagna come luogo di libertà e di socialità. Una natura per tutti. David Le Breton, un antropologo francese che insegna all’Università di Strasburgo, ha scritto un libro affascinante: “La vita a piedi – Una pratica della felicità”. Camminare per rinnovarsi e stare con gli altri, per scoprire una giornata di avventura, per fissare e raccontare un’esperienza nella memoria. Poi ci sono altri “cammini”, più tristi ma questi attengono ai mali della società contemporanea. Oggi la pubblicistica sui sentieri di montagna è quanto mai vasta, dai lavori seri e specialistici ai comunicati spesso fuorvianti sui social network. Il narrare di Gianpaolo Fabbri, in un panorama quanto mai variegato e spesso fuorviante, permette di recuperare due aspetti: l’esperienza raccontata in prima persona accompagnata dalla correttezza delle indicazioni di frequentazione e lo sguardo critico (nato dall’esperienza) sui beni e sui mali delle Alpi di oggi. Un andare per monti non solo per piacere fisico e gioia di contemplazione, ma anche per partecipare da cittadino al futuro delle “nostre” Alpi. Per apprezzare un’escursione e per vedere remunerata la fatica, bisogna andare in luoghi belli, percorrere gite interessanti.
Le due componenti dell’escursionismo, l’azione e la contemplazione, sono complementari l’una all’altra: si prova la sensazione di benessere fisico, il piacere del corpo in movimento e il piacere di guardare il mondo dall’alto, lo stupore sempre nuovo davanti alla bellezza della natura: la parete Est del Monte Rosa, il Vaccareccio di Veglia, l’alpe Devero e la Val Buscagna, la Cascata del Toce, gli orridi di Antigorio, la dolcezza di Vigezzo, i boschi della Valgrande. Le montagne possono dare risposte ai bisogni degli uomini d’oggi. La civiltà alpina è portatrice di valori umani tanto antichi quanto rivoluzionari oggi: la solidarietà forte e condivisa, il rispetto assoluto per l’ambiente, il valore della fatica e il piacere per un lavoro ben fatto (la cura di un sentiero o di un bosco abbandonato, il sostegno di un “muro a secco” che soffre, la costruzione di un “ometto” per indicare la direzione). Un’ultima nota. Il titolo del libro è “Dove cominciano i faggi”; un invito a scoprire le “terre di mezzo” tra il Monte Rosa e il Lago Maggiore. Il faggio (Fagus sylvatica L.) è la “quercia dei boschi” secondo l’etimo greco-latino, albero nobile e imponente che permea l’orizzonte forestale dai 700 ai 1500 m. L’albero totemico delle terre di mezzo.