Paolo Crosa Lenz       Lepontica 31      Giugno 2023

Sommario

1. Elogio di Agaro
2. Hundareiscini e trighio
3. Le coppelle: pietre che pregano?
4. Il frassino e il noce
5. I 160 anni del Club Alpino Italiano
6. Chi ha inventato i ramponi?
7. Dipingere l’estate


Memoria

1. Elogio di Agaro

La storia di Agaro, sui monti della Val d’Ossola, è quella di un luogo che non esiste più. Dove un tempo c’erano case e prati, oggi c’è una distesa d’acqua che produce energia elettrica per industrie e città. Della vita intensa che per sette secoli ha animato una piccola comunità alpina non rimane nulla, se non una tenue traccia nella memoria e qualche scritto poco conosciuto. Certamente altri luoghi delle Alpi hanno subito la stessa sorte, ma quella dei montanari di Agaro è per molti versi una storia straordinaria. L’ambiente è quello severo dell’alta montagna (Agaro era il più piccolo e più alto comune dell’Ossola), le case erano adagiate sul fondovalle e distribuite nei due piccoli nuclei di Agaro e Margone, stretti dagli scoscesi versanti di montagne rocciose e senza respiro, mentre i boschi sacri aggrappati ai versanti proteggevano l’abitato dalle valanghe. In alto, gli alpeggi erano il perno di un’economia basata quasi esclusivamente sull’allevamento e sull’accumulo di foraggio. Agaro (Agher in lingua walser), come il vicino villaggio di Ausone, fu fondato da coloni walser provenienti dalla valle di Binn in Vallese alla fine del XIII secolo. Uomini venuti da lontano, armati di ascia e di falce, colonizzarono fazzoletti di terra fra le rocce e costruirono case di legno protette dai boschi. Un documento del XVI secolo racconta: “Piccole terre poste sopra altissimi monti nei confini verso Svizzeri e Vallesani, abitate da gente rozza e di costumi todeschi che vive dietro al bestiame, ma non vi nasce vino e pochissima segale, e le case sono tutte di bosco…” Le strade non c’erano. Solo sentieri tagliati nella roccia o esili sotto le creste. La strada per Baceno fu sempre il collegamento con il mondo: tre ore di cammino per andare a sposarsi, a battezzare i figli, a seppellire i morti, a comprare il sale e a pagare le tasse. Quella strada non era percorribile da muli o asini: tutte le merci dovevano essere portate a spalla. In inverno il percorso era anche battuto dalle valanghe e numerose sono le croci che ricordano gli agaresi travolti o scivolati sul ghiaccio. Nonostante le difficoltà ambientali e il grande isolamento che condannava quei montanari “al sacrificio di una vita segregata e sempre uguale”, il tempo scorreva cadenzato dalle gioie e dai dolori di ogni comunità umana in cui è vivo un rapporto quasi magico con l’ambiente naturale. Poi, dopo settecento anni di vita dura e indipendente, in palazzi lontani fu deciso che Agaro doveva morire. Scrive Renzo Mortarotti: “…Quello che era stato il più alto centro abitato dell’Ossola e una delle più segregate e inaccessibili colonie della diaspora walser conobbe d’un tratto la civiltà del progresso e della tecnica, che lo aveva fino allora ignorato, solo per udirne la condanna a morte. Agaro infatti nel 1938, dopo sette secoli di esistenza, venne sommerso, col suo splendido altopiano alluvionale, dalle acque dell’omonimo rio, sbarrate da una diga alta 57 metri, costruita in tre anni di lavoro, per creare un bacino idroelettrico della capacità di 20 milioni di metri cubi.” Requiescat in pace. Amen.
In alto:
-Il villaggio walser di Agaro prima di essere sommerso dalla diga.
-Gruppo di famiglia di Agaro agli inizi del Novecento (da “I Walser del silenzio” Grossi, Domodossola, 2003


Una parola al mese

2. Hundareiscini e trighio

È stato buono il tempo del fieno nella mia valle. Gli amici contadini finalmente sorridono quando mi dicono che, dopo un inverno caldo e asciutto, ha piovuto quando doveva e a maggio il fieno era già alto e fitto (s-ciàs). Il fieno di maggio è quello che conta di più per metterlo in cascina, poi verranno l’agostano (argorda) e il settembrino (tarsola), ma è tutto un di più. Mentre in riva al Toce si taglia il “maggengo”, sulle alte valli, a 1300-1500 m, la neve inizia a sciogliersi e i prati devono ancora inverdire. Nelle valli interne dell’Ossola (un “altro mondo” rispetto al fondovalle) tutti sperano in una buona e fertile estate, tempo di usare hundareiscini e trighio. I prati sono ripidi, non si possono usare carri e animali da traino. Tutto deve essere portato a spalle (“a ciuffo” come dicevano i Walser di Agaro). Il fieno prima di tutto. Sui prati “in piedi”, dopo aver tagliato, voltato e seccato, l’erba diventata fieno, con le corde viene avvolta in grandi mucchi e legata con due corde. Per fissarla e bloccarla viene usata la trighio, un attrezzo proprio e unico dei contadini di montagna, sconosciuto in pianura. È un anello di legno con una punta in cui scorrono e vengono bloccate le corde; l’antenato del freno a otto degli alpinisti. Una volta confezionato il fascio di fieno, per trasportarlo a spalle vengono usati gli hundareiscini, due bastoni di legno appuntiti su un lato, generalmente nocciolo perché leggero e robusto oltre che flessibile, che vengono infilati nel fascio e, facendo leva con le spalle, lo sollevano e lo portano nel fienile. Due attrezzi semplici ed essenziali che sono simbolo di una civiltà antica e sapiente. Attrezzi poveri oggi sconosciuti, ma che un tempo permettevano di lavorare con efficienza ed efficacia. La trighio (ve ne sono di diverse fogge, ma con unico principio funzionale) viene conservata e i musei contadini ne offrono svariati esemplari, mentre gli hundareiscini venivano usati per accendere il fuoco e rinnovati tutti gli anni.
Fienagione a Salecchio (Val d’Ossola), villaggio walser a 1300–1500 m abbandonato alla fine degli anni ’60 del Novecento. Da: P. Crosa Lenz (a cura di) “I Walser del silenzio: Agaro, Salecchio, Ausone” Grossi, Domodossola, 2003.


Archeologia

3. Le coppelle: pietre che pregano?

Sotto le casère diroccate dell’alpe Prà, in Valgrande, si trova un “masso coppellato” che ci parla di un’antica presenza umana sulla montagna. In posizione dominante sulla valle e perfettamente orientato verso il sorgere del sole, la tavola di pietra reca una trentina di coppelle collegate tra loro da canalette. Le “coppelle” sono piccole vaschette emisferiche ricavate probabilmente per primitiva incisione e successiva lisciatura con un ciottolo di fiume sferico; a volte sono collegate tra loro da canalette. Sono diffuse su tutto l’arco alpino e l’abitudine dei montanari di incidere segni sulle rocce viene fatta risalire al Neolitico, ma si protrasse fino all’Ottocento. Nel Medioevo, in bassa Valgrande, le pilette venivano incise sui sassi per contromarcare i confini di boschi e pascoli. Gli studiosi ascrivono le coppelle al generale fenomeno delle incisioni rupestri con cui l’uomo preistorico entrava in contatto con le divinità. È il mondo del trascendente e del religioso che può spiegare la pratica rituale di creare incisioni sulla roccia.Quasi la soddisfazione del bisogno di trovare risposte a domande insolute propria dell’uomo. Le numerose coppelle sparse un po’ dappertutto, anche in addensamenti numerosi come alla Colma di Craveggia in Valle Vigezzo (studiate da Tullio Bertamini che le interpreta come legate a culti solari e in particolare ai fulmini), ci raccontano il mondo religioso degli uomini che per primi vissero sulle Alpi. Ma a cosa servivano? Perché venivano realizzate? Scrive Ausilio Priuli: “Espressioni in massima parte cultuali, le incisioni rupestri rivelano che l’uomo primitivo non tendeva ad un risultato formale, ma nell’atto stesso di incidere riconosceva il mezzo per avvicinarsi alle forze dominanti della natura, rito propiziatorio e preghiera nello stesso tempo, rivolti al sovrannaturale”. La “pietra di Gana”, all’omonimo corte lungo l’antico sentiero che portava in Pogallo, è una lastra di calcescisto con incisi simboli vulvari, antropomorfi e due coppelle che richiamano alla “pietra della fertilità” dell’alpe Curzelli in Valle Antrona. Sebbene viene ritenuta incisa in secoli recenti, essa richiama a riti propiziatori di fertilità risalenti a tempi molto lontani. Nel 2003 l’indimenticato amico Alberto De Giuli ha realizzato con Ausilio Priuli e Fabio Copiatti un primo censimento (“Incisioni rupestri e megalitismo nel Verbano Cusio Ossola”, Grossi Edizioni, Domodossola, 2003), ma sempre nuovi ritrovamenti si sono registrati negli anni. Un altro amico, il verbanese Antonio Biganzoli ha scritto altri due libri affascinanti (“Il territorio segnato – Incisioni rupestri nel Verbano” e “Valle Strona arcaica: territorio, storia e preistoria nelle incisioni rupestri” entrambi editi dal Museo del Paesaggio di Verbania nel 1998 e nel 2005).
Il masso coppellato dell’alpe Prà in Valgrande e le coppelle dell’alpe Zeiti sopra Ornavasso, recentemente scoperte.


Letteratura

4. Il frassino e il noce

Lady Cole fu una simpatica e intraprendente signora inglese che visitò le valli dell’Ossola nel 1856 e nel 1858. Era moglie del facoltoso giudice Henry Warwick Cole e ci ha lasciato preziose annotazioni nel libro di viaggio “A lady’s tour round Monte Rosa” (Londra, 1859). Viaggiava da sola senza il marito, cosa rara per le signore inglesi nell’Ottocento, ma accompagnata da un cospicuo seguito di ancelle e servi, muli e mulattieri, bauli e cappelliere. Per camminare nelle valli alpine (le strade “carrozzabili” dovevano ancora essere costruite!) e per non offendere la rigida morale vittoriana che imponeva di indossare la gonna fino alla caviglia sempre e ovunque, aveva inventato un ingegnoso sistema per cui, con ganci e cordicelle, man mano che lasciava i paesi accorciava la gonna e valicava i passi di montagna in mutandoni; poi riabbassava il tutto all’ingresso dei villaggi di fondovalle. Della sua visita in Valle Anzasca ci ha lasciato questa testimonianza fragrante. “Gli agricoltori alpini non sembrano essere d’accordo con i loro colleghi inglesi nel considerare il frassino con avversione o cercando di estirparlo come la mala erba, anzi, favoriscono la sua crescita e ne ricavano un profitto strappando le foglie e utilizzandole come foraggio per il bestiame. La raccolta delle foglie di frassino sembra essere in questa stagione una delle principali occupazioni delle donne e tre o quattro di esse sono arrampicate sul ramo di un unico albero strappando ogni foglia con la stessa cura di un cinese per una pianta di tè. Queste foglie sono poi sparse ad essiccare come il fieno e sono portate via in grandi fagotti, mentre i poveri alberi, che sono stati sottoposti a questa operazione, con i loro rami spogli sembrano più tristi. Vedemmo anche una donna arrampicarsi sugli alberi a raccogliere le noci con abilità e se la nostra guida diceva loro qualche parola spinta, la bersagliavano dall’alto. Benché le noci siano abbondanti nel distretto, non ce ne servirono mai a pranzo ed era insolito vedere in tavola delle noci fresche. Credo che siano raccolte soprattutto per farne olio. Le noci sembrano quasi altrettanto utili agli abitanti delle valli alpine delle olive per gli abitanti delle pianure italiane”.
Alpigiani di Valle Anzasca agli inizi del Novecento. (Archivio Marco Sonzogni – Castiglione)


Anniversari

5. I 160 anni del Club Alpino Italiano

Il 12 agosto 1863 una cordata di quattro alpinisti (Giovanni Baracco, Paolo e Giacomo di Saint-Robert, Quintino Sella) scala il Monviso, montagna mitica per l’Italia della seconda metà dell’Ottocento perché da essa nasce il Po, il più lungo fiume d’Italia. Il “progetto politico” di Quintino Sella prevedeva una somma di simboli: l’alpinismo come affermazione di italianità (la nascita di un Club Alpino nazionale), il contrasto allo strapotere degli Inglesi (le Alpi come playground of Europe “il terreno di gioco dell’Europa”), una cordata “nazionale” (Giovanni Baracco era calabrese, simbolo di un Sud da includere), il “grande fiume” e la sorgente di vita di una nazione nascente. L’articolo uno dello Statuto recita: “Il Club alpino italiano (C.A.I.), fondato in Torino nell’anno 1863 per iniziativa di Quintino Sella, libera associazione nazionale, ha per iscopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale”. Come alpinista e uomo CAI credo che questi tre “scopi statutari” siano ancora di grande attualità e possono porsi come occasione di impegno etico e sociale per le nuove generazioni. Certo, oggi che il CAI è un sodalizio che conta 327.000 soci organizzati in 517 sezioni sparse in tutta Italia, questi “scopi” vanno declinati in termini nuovi. Negli anni Duemila il CAI è chiamato a sfide nuove e inedite: la costruzione di una nuova cultura dei territori montani, il confronto con una società digitalizzata e globalizzata, l’ancoraggio all’alpinismo ma anche la nuova dimensione sociale dell’escursionismo (azione, contemplazione, conoscenza), il coinvolgimento dei giovani, la necessità di una tutela assoluta della natura e della biodiversità. Nel 1883 si tenne ad Intra l’incontro annuale delle “Quattro Rosine”. Le sezioni storiche a sud del Monte Rosa (Biella, Varallo, Intra e Domodossola). Dai verbali emergono ideali inesausti. Per la sezione di Domodossola intervenne Giovanni Belli: “Il tempo dell’Alpinismo non è, né sarà mai terminato. Noi dobbiamo lasciare ai nipoti l’eredità delle cognizioni alpinistiche acquistate, i quali le conserveranno ed accresceranno per trasmetterle vieppiù ricche ai loro discendenti. Lo scopo dell’Alpinismo italiano non è così aspro e duro come quello dell’Alpinismo inglese; esso oltre alle escursioni ed alle salite sulle alte vette, si propone parecchi altri scopi di grande utilità”. Buon compleanno Club Alpino Italiano!

In alto
Alpinisti in Val Formazza alla fine dell’Ottocento.
Ritratto di Quintino Sella di Giuseppe Venanzio Sella, 1860 [Archivio Fondazione Sella in A. Formegnana (a cura di) “Un viaggio lungo 150 anni” E20Progetti Editore e CAI Biella, 2023].


Alpinismo

6. Chi ha inventato i ramponi?

L’amico Enrico Rizzi nel 1990 ha pubblicato per conto della Fondazione Monti un libro straordinario con la prima traduzione italiana degli scritti di W.A.B. Coolidge, il padre fondatore della moderna storiografia alpina (“Il popolo delle Alpi e altri scritti”). William Auguste Brevoort Coolidge (1850-1926) era nato a New York, cresciuto in Inghilterra dove divenne pastore protestante e trascorse le estati a scalare sulle Alpi. Trascorse gli ultimi dieci anni, dopo aver lasciato la cattedra universitaria ad Oxford, a Grindenwald in Svizzera dedicandosi all’alpinismo e a fecondi studi sulla storia delle Alpi. Nel libro c’è un capitolo intitolato “L’uomo e la montagna: i suoi attrezzi, le sue bizzarre invenzioni, le sue guide”, pubblicato in francese a Grenoble nel 1904. Chi ha inventato i ramponi? “Strabone, riprendendo la notizia da Teofano di Mitilene che accompagnava Pompeo durante la guerra contro Mitridate, ci racconta come nel Caucaso, dove le vette più elevate sono inaccessibili in inverno, i locali usino scalarle d’estate «calzati di suole piatte ricavate da pelli di bue non conciate simili a cimbali (piatti) e muniti di punte di ferro per affrontare il ghiaccio e la neve». Il Freshfield ha portato a Londra uno di questi ramponi ritrovato in una tomba antichissima nei pressi di Vladikavkas, alla base della grande catena del Caucaso. Esso presenta una grande rassomiglianza con quelli usati dai chamoniardi nel XVIII secolo. La stampa riprodotta dal Saussure rappresenta ramponi simili a quelli moderni, composti da una suola con punte di ferro solamente in corrispondenza del tacco e assicurati alle calzature con legacci. Verso il 1555 il de Candale racconta come, nel tentativo di scalare il Pie du Midi di Pau, si fosse servito di «uncos ac manus ferreas»: uncini fatti costruire appositamente e realizzati in modo mirabile («per uncos artificiose a se fabricatos »). Credo che gli attrezzi descritti dal Simler dovessero essere fissati direttamente alle suole delle calzature piuttosto che legati. Tra il 1573 e il 1588 il botanico Clusius (il belga Charles de l’Ecluse), parlando di una delle sue ascensioni al Wiener Schneeberg (2075 m) cita dei «ferreis uncis ad pedes alligatis», che senza dubbio non erano altro che ramponi. Nel 1588 il Villamont scrive che, durante la sua ascensione sul Rocciamelone si servì di «uncini di ferro che si attaccavano alle mani e ai piedi ». Vengono in mente «le punte di ferro ai piedi» e «gli uncini alle mani» di cui si servirono, nel 1689, P.A. Arnod e i suoi compagni nel tentativo di passare il Col du Géant, e anche i «Fusseisen» (o ramponi ai piedi) utilizzati dai primi scalatori del Titlis nel 1744.”
In alto
“Passaggio di un crepaccio sul ghiacciaio di Hinterrein, Grigioni (XIX secolo)” e “Dalla Historia delle genti settentrionali di Olao Magno (xilografia del 1550)”. Da: WAB Coolidge “Il popolo delle Alpi e altri scritti”, Fondazione Monti, 1990.


Pittura

7. Dipingere l’estate

Se è difficile dipingere l’inverno, è facile dipingere l’estate. Le alte Alpi esplodono di colori nell’effervescenza dell’estate in montagna e della pittura “en plain air”. Maestro di questa pittura, in Val d’Ossola, fu Rino Stringara di Villadossola (1928–1993) che espose soprattutto a Santa Maria Maggiore e a Macugnaga. A 44 anni, nel 1972 lasciò la professione di costruttore edile per dedicarsi a tempo pieno all’arte, unendo alla passione un duro apprendistato tecnico che gli permise di sviluppare uno stile personalissimo. Questo quadro (“Il tiglio e Chiesa Vecchia a Macugnaga con sfondo del Rosa, Fillar e Jazzi”, tela 120 x 80, coll. priv.) è iconico della stazione alpina ai piedi del Monte Rosa: l’imponenza della montagna (con al centro il lungo “crestone” della Cima Jazzi su cui corre un impegnativo itinerario alpinistico) e i due simboli della storia walser di Macugnaga. Il primo è Chiesa Vecchia, costruita nel XIII-XIV secolo dai coloni walser provenienti dalla valle di Saas attraverso il valico del Monte Moro che oggi ospita all’esterno il cimitero degli alpinisti caduti sul Monte Rosa e la grande lapide che ricorda i soci defunti del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna). L’altro simbolo è il “vecchio tiglio” (Alte Lindebaum in lingua walser). È alto 15 m con una circonferenza di 8,3 m. Secondo una leggenda sarebbe stato portato come pianticella dalla Saastal ai tempi della colonizzazione. Sulla sua datazione è in corso da decenni una feroce discussione: dai leggendari 700 anni, all’ipotesi di don Tullio Bertamini (500 anni) ai tecnici della Regione Piemonte (il tiglio è riconosciuto e tutelato come “albero monumentale”) che lo datano a 200 anni.
In alto
“Il tiglio e Chiesa Vecchia a Macugnaga con sfondo del Rosa, Fillar e Jazzi” e “Autoritratto”, 1977. (da: “Rino Stringara” Grossi Edizioni, Domodossola, 1992)