Paolo Crosa Lenz Lepontica 34 Ottobre 2023
Sommario
1. C’è lavoro per tutti
2. Il linguaggio segreto dei boscaioli
3. Di un antico metallurgo ambulante
4. Le stragi di ebrei sul Lago Maggiore
5. LepontinExpress
6. “La meraviglia della montagna”
7. Il “supervulcano” della Valsesia e della Valgrande
Poesia
1. C’è lavoro per tutti
Gianni Rodari (1920 – 1980), in realtà si chiamava Giovanni Francesco, è uomo delle mie terre, Omegna sul Lago d’Orta. Tutti lo conoscono: chi lavora nella scuola e chi si occupa di pedagogia, chi pensa
di filosofia e chi sogna un mondo migliore. In quest’autunno che preannuncia un anno incerto e faticoso, dono a tutti questa sua poesia per iniziare, dopo la pausa estiva, un anno di impegno professionale e sociale che auguro gratificante. Sul lavoro si muore, per il lavoro si vive.
Ce n’è per tutti.
In principio la Terra era tutta sbagliata
renderla più abitabile fu una bella faticata.
Per passare i fiumi con c’erano ponti,
non c’erano sentieri per salire sui monti.
Ti volevi sedere? Neanche l’ombra di un panchetto.
Cascavi dal sonno? Non esisteva il letto.
Per non pungersi i piedi, né scarpe, né stivali.
Se ci vedevi poco, non trovavi gli occhiali.
Per fare una partita, non c’erano palloni;
mancavan la pentola e il fuoco per cuocere i maccheroni,
anzi, a guardar bene, mancava anche la pasta.
Non c’era niente di niente: zero più zero e basta.
C’erano solo gli uomini con due braccia per lavorare,
e agli errori più grossi si poté rimediare.
Da correggere, però, ne restano ancora tanti:
rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti!
Montagna
2. Il linguaggio segreto dei boscaioli
Furono quattro i “mestieri” degli uomini di montagna che permisero loro di sopravvivere nei secoli in un ambiente povero e severo: l’alpigiano (contadino – allevatore), il boscaiolo, il minatore, il someggiatore (il trasporto di merci a dorso d’animale attraverso i valichi alpini, a volte sconfinando con il contrabbando a “spalle”). Vi parlerò in questi mesi dei boscaioli. Prima dell’introduzione della motosega (ultimi vent’anni del Novecento) tutto veniva tagliato a sega e scure. Poi la legna doveva essere portata a valle. All’inizio el Novecento arrivarono i fili a sbalzo (le corde nei nostri dialetti). C’era un linguaggio segreto per “far parlare” i fili a sbalzo (il motore era la gravità). Battendo con un legno sul filo, le onde di risonanza, registrate appoggiando una mano sul filo, trasmettevano il messaggio dalla stazione di partenza a quella
di arrivo. Un colpo “ferma”, due colpi “riprendi”, tre colpi “aspetta, c’è un problema” e così via. L’ultimo carico era segnalato con un mazzetto di rami verdi: la giornata era finita. Gli uomini che lavoravano ai turni in stabilimento, prima o dopo il lavoro, “lavoravano” portando con le caule (cadole) corde (le cubiette) e ronzelle (le rotelle di ferro che scorrevano sul filo e a cui si appendevano i carichi di legna o di fieno). Quelle in ferro venivano usate per le pendenze lievi per il loro maggiore scorrimento, ma ovevano
essere riportate a monte. Riportare alle stazioni di monte cubiette e ronzelle era spesso lavoro da donne.
Carichi pesanti su sentieri impervi per guadagnare “il soldo”. Per le pendenze maggiori si usavano i rampit, un tronchetto con un moncone di ramo a cui appendere la carica. Era materiale a perdere che non
doveva essere riportato a monte. Noi bambini all’alpe, facevamo colazione osservando le cariche scendere e i boscaioli ci lasciavano “rubare” i rampit per giocare. Poi le mamme li bruciavano.
25 aprile 1946, alpe Vallemiola (Valle Antrona). Alpigiani e boscaioli festeggiano il primo anniversario della Liberazione
Archeologia
3. Di un antico metallurgo ambulante
Nell’Antichità e in Protostoria (all’origine della scrittura non ancora formalizzata per trasmettere memoria collettiva), la figura del metallurgo assumeva dimensioni “magiche”: l’uomo che sapeva trasformare la roccia in metallo lucente. In bronzo erano le armi di Achille e Ulisse. Il metallo degli eroi. Il bronzo è una lega di rame e stagno. Il rame è diffuso e abbondante sulle Alpi, lo stagno viene dal nord, dalle coste del Baltico e dalla Cornovaglia. Prezioso per indurire il rame, era commerciato lungo appositi percorsi che l’archeologia ha documentato. Nel villaggio di Meis di Re, in Valle Vigezzo, è stata rinvenuta un’ascia in bronzo a margini rialzati (prima metà secondo millennio a.C. datata su base tipologica) che gli archeologi attribuiscono all’equipaggiamento di un metallurgico ambulante. Alla fine dello stesso periodo viene fatta risalire una forma di fusione per la produzione di spilloni ritrovata a Toceno. Questi reperti preziosi raccontano di un’antichissima frequentazione delle Alpi occidentali e sono visibili nel museo del Parco Nazionale Val Grande a Malesco. La visita del museo può essere abbinata a quella delle coppelle e dello scivolo della fertilità alla periferia del paese. I parchi non sono solo natura, ma anche cultura. A Craveggia, alla fine dell’Ottocento e poi nel 1980 (26 tombe a inumazione) sono stati rinvenuti reperti di età romana imperiale (bicchieri, pentole e tegami) in ceramica tornita o scavati nella pietra ollare di produzione locale. Il contesto è prezioso in quanto documenta fertili scambi commerciale tra le Alpi e il Lago Maggiore (i pregiati “vetri di Locarno”). Oltre a questi reperti, il museo di Malesco espone una serie di casseruole in oro e argento che riportano il marchio Plubius Cipius Polybius, un artigiano della Campania. Duemila anni fa: alle origini della globalizzazione. Fibule (antichi fermagli) e gemme intarsiate raccontano di ricchezze lontane. Tutto da vedere e tanto su cui riflettere.
Parte di un corredo da mensa in terracotta dalla necropoli di Craveggia
Forma di fusione per spilloni (Lago di Viverone)
Replica attuale dell’immanicatura di un’ascia in bronzo
Ornamenti di tradizione locale dalla tomba 17 di Craveggia
Immagini da: G. Spagnoli Garzoli (a cura di) Museo archeologico e della pietra ollare del Parco Nazionale Val Grande – Guida breve, 2016
Storia
4. Le stragi di ebrei sul Lago Maggiore
Il golfo Borromeo del Lago Maggiore è uno dei luoghi più belli al mondo per armonia di natura e paesaggio. “Qui comincia la bella Italia” scrisse entusiasta un viaggiatore russo nell’Ottocento. In tanta bellezza, ottant’anni fa, maturò la più grande strage di ebrei in Italia dopo le Fosse Ardeatine. Dopo l’8 settembre i tedeschi della Panzer Division Waffen SS avevano preso il controllo del Lago Maggiore, naturale via di fuga tra il milanese e l’accogliente Svizzera. Il comando militare era all’Hotel Beau Rivage di Baveno, un albergo di lusso per uomini spietati. Tra il 13 settembre e il 10 ottobre furono rastrellati e uccisi 57 ebrei in nove comuni; altrettanti riuscirono a riparare in Svizzera aiutati dalle prime “bande” partigiane. Un gruppo consistente proveniva da Salonicco in Grecia, scampati alla deportazione grazie all’intervento del console italiano Guelfo Zamboni “Giusto tra le Nazioni”. A Meina, i sedici ospiti ebrei dell’albergo “Hotel Meina” vennero catturati e, dopo una settimana, furono uccisi e i loro corpi gettati nelle acque del Lago Maggiore a poche centinaia di metri dal paese. Era la notte tra il 22 e il 23 settembre 1943. Il mattino successivo, sulle spiagge i bagnanti prendevano il sole. A loro sono state negli anni dedicate due stele commemorative e sedici “pietre d’inciampo”. Gli storici ritengono “anomali” le stragi del Lago Maggiore in quanto le “procedure” prevedevano l’arresto e l’internamento nei campi. Le uccisioni furono forse legate a interessi degli ufficiali nazisti di stanza per impadronirsi dei beni loro. Orrore ad orrore. Nel dopoguerra furono intentati processi, ma nessuno pagò. È necessario che i nostri giovani sappiano queste cose. Il film di Carlo Lizzani “Hotel Meina” del 2007 (comunque da vedere) è stato contestato nella ricostruzione cinematografica da Becky Behar, testimone degli eventi in quanto figlia del proprietario dell’albergo e salvatasi grazie all’intervento del console turco. Ulteriore documentazione di contesto, come sempre per questi temi, è alla Casa della Resistenza di Fondotoce con cui mi onoro di collaborare.
L’Hotel Meina, dove persero la vita sedici ebrei nella notte tra il 22 e 23 settembre 1943.
Alpinismo
5. LepontinExpress
“LepontinExpress”: cinque itinerari alpinistici sui monti di Devero, 17 ore di scalata ininterrotta e lunghi “ravanage” (percorsi su pietraie, rocce infide e sgretolate), migliaia di metri di dislivello. Questa l’avventura ideata e realizzata lo scorso luglio da Fabrizio Manoni e Matteo Pasic, entrambi guide alpine, ma soprattutto alpinisti aperti a sempre nuove esperienze. È stato un alpinismo di raid; quello che negli anni ’90 si chiamava di concatenamento: il percorrere itinerari impegnativi in tempi ristretti e senza soste. Manoni e Pasic sono partiti dalla Val Deserta per arrivare al bivacco Combi e Lanza in Val Buscagna: in mezzo tutto lo scalabile in Devero e il meglio dell’alpinismo sulle Alpi Lepontine. “LepontinExpress” chiude idealmente un ciclo esplorative iniziato nel 1947 con la prima salita dello spigolo sudest della Punta della Rossa e che ha visto negli anni ’70 le grandi salite sulle guglie di Cornera e ha visto nel 2000 l’apertura di “Nuovo Millennio” sulla parete est della stessa montagna, la prima via “a goccia d’acqua” e di difficoltà moderne sulle Alpi Lepontine. In mezzo a questi settant’anni c’è stata su queste pareti la formazione di tre generazioni di alpinisti ossolani. Questo l’itinerario. Manoni e Pasic hanno salito la Est della Punta Fizzi, quindi la Est del Pizzo Crampiolo (itinerario pochissimo percorso), discesa della cresta Ovest e parete Est della Punta della Rossa; discesa per la normale quindi salita al Passo dei Laghi e salita alla Punta Marano lungo l’infida e frantumata cresta est, traversata fino alla Punta Gerla e al Monte Cervandone, discesa per l’insidiosa “Via degli Ometti” (veramente pochi). L’intenzione originaria era di passare per l’intaglio tra il Pizzo Cornera e la Punta Devero ma niente da fare, perché troppo pericoloso per le continue scariche di sassi. Lunga discesa a Pian Buscagna e risalita al bivacco Combi e Lanza, poi viene notte, si accendono le stelle e si spengono le luci delle lampade frontali. Mi racconta Fabrizio Manoni: “A volte mi viene da pensare all’alpinismo come ad una metafora della vita. Parti per un lungo viaggio. Sai da dove parti, vorresti arrivare ad un traguardo. Ma in mezzo ci sono tante variabili. A volte arrivi, a volte no. A volte vai addirittura oltre. In mezzo ci puoi mettere tutto, compreso la fortuna o il suo contrario.” L’avventura è stata ripresa dal drone del fotografo Roberto Bianchetti e ha visto l’assistenza tecnica di Mauro Previdoli e Roberto Proletti.
In alto La cresta est della Punta Marani con quello che rimane del ghiacciaio alla sua base.
Fabrizio Manoni in vetta al Monte Cervandone (3230 m), la vetta più elevata della traversata
Libri
6. La meraviglia della montagna
Konrad Gesner (1516 – 1565) fu uno dei più grandi naturalisti svizzeri dell’età moderna. Figlio di una famiglia numerosa e poverissima fu introdotto agli studi dallo zio prete Johan Frick e fu aiutato economicamente dal riformatore Heinrich Zwingli. A 16 anni aveva già studiato greco, latino ed ebraico, proseguendo con il diritto e le scienze naturali, diventando botanico e zoologo. Divenne primo medico della città di Zurigo, dove morì a 45 anni contraendo la peste per le cure prestate ai malati poveri della città. Una malattia sopportata con “socratica serenità”. Nel 1561 compì un lungo viaggio sulle Alpi di cui lasciò un accurato resoconto, oggi pubblicato in prima edizione italiana (L’ammirazione della montagna, Grossi, Domodossola, 2023 a cura di E. Rizzi). La sintesi aurea di quell’esperienza è in queste parole: “Ormai è deciso, dottissimo Vogel: per tutto il tempo che Dio mi concederà di vivere, almeno una volta ogni anno – o al massimo ogni due – scalerò una montagna nella stagione nella quale le piante saranno nel pieno della loro fioritura. Lo farò per studiare i fiori alpini, ma anche per procurare nobile esercizio al mio fisico, e gioia al mio spirito. Quale felicità maggiore, non credi? Che delizia, per l’animo colto da naturale emozione, il poter ammirare lo spettacolo offerto dall’immensa mole di questi monti, e innalzare in qualche modo il proprio capo in mezzo alle nuvole! Senza riuscire a spiegarmelo fino in fondo, sento il mio spirito colpito da queste meravigliose altezze, e rapito dall’opera del Supremo Architetto.” Per dare la cifra di quel “matto studioso” vale un dato. Nel 1545 (aveva 29 anni e conosceva dieci lingue) pubblicò un “libro”: Bibliotheca Universalis sive Catalogus omnium scriptorum (“Un elenco di tutti gli autori greci, latini ed ebraici conosciuti: circa 3.000 raccolti in 1264 pagine in folio, con le indicazioni bibliografiche e un tomo di indici con oltre trentamila voci.” [E. Rizzi]). Poi … scrisse altro: linguistica comparata, medicina, farmacopea, oltre a monumentali opere di botanica e zoologia. Non aveva molto tempo, il mio amico Konrad Gesner per andare in montagna! Vi ricorda qualcuno? A me Giacomo Leopardi. Lo svizzero però, in quel turbinio di studi aveva avuto anche il tempo di sposarsi a 19 anni. Una vita corsara.
In alto
Folio con note autografe dell’Historia plantarum di Konrad Gesner, Basilea, 1541
Konrad Gesner, xilografia acquarellata, XVI sec.
Immagini da L’ammirazione della montagna, a cura di Enrico Rizzi, Grossi, Domodossola, 2023
Geologia
7. Il “supervulcano” della Valsesia e della Valgrande
Circa 300 milioni di anni fa, gli scienziati ci dicono che un supervulcano dell’ampiezza di parecchie decine di chilometri occupava il territorio che l’evoluzione geologica ha portato all’attuale Valsesia e Valgrande. Indice di questa antica eruzione, in realtà un collasso dovuto allo svuotamento del magma sottostante la superficie terrestre, sono le forme del paesaggio e la composizione delle rocce (in particolare zircone). Dice Wikipedia “Il termine supervulcano non è utilizzato in vulcanologia, ma è stato coniato dagli autori di un programma divulgativo scientifico, Horizon, mandato in onda dalla BBC nel 2000, per riferirsi al risveglio di tali grandi caldere che producono gigantesche eruzioni vulcaniche, tali da modificare radicalmente il paesaggio locale e condizionare pesantemente il clima a livello mondiale per diversi anni, con effetti cataclismatici sulla vita stessa del pianeta.” Tipo l’estinzione dei dinosauri. La successiva orogenesi alpina ha lasciato tracce nella composizione delle rocce dovute alla collisione del paleo-continente africano con quello europeo. Semplifico una materia quanto mai ardua, tanto affascinante quanto complessa. Per gli interessati ad approfondire consiglio la visita del “Geolab” del Parco Nazionale Val Grande a Vogogna. Nel 2013 è stato riconosciuto dall’Unesco il “Sesia Val Grande Geopark”, un marchio simile al patrimonio mondiale dell’umanità, con lo scopo di valorizzare le peculiarità geologiche dei territori. È il nono in Italia e pone il nostro paese al primo posto in Europa e secondo al mondo dopo la Cina. In occasione della 10a “UNESCO Global Geoparks Network Conference” lo scorso settembre a Marrakech (Marocco), nei giorni del terribile terremoto che ha colpito la regione, il geoparco piemontese ha ottenuto il “cartellino verde” di riconferma della qualifica di parco geologico Unesco per il lavoro svolto di tutela e valorizzazione. La conferenza in Marocco è stata organizzata dal “M’goun UNESCO Global Geopark”, il primo geoparco arabo e africano; vi hanno partecipato oltre 1200 tecnici e scienziati provenienti da 48 stati del mondo.
In alto : Le baite dell’alpe Mottac, nel cuore della Val Grande