Paolo Crosa Lenz Lepontica 35 Novembre 2023
Sommario
1. Viaggio al centro della Terra
2. Grà
3. Il racconto di un viaggio straordinario
4. Le necropoli di Pedemonte e l’Antiquarium di Gravellona Toce
5. Giannino Piana
6. “Voglio bene a Migiandone”
7. “La voce della montagna”
Natura
1. Viaggio al centro della Terra
La bassa Val d’Ossola è una “palestra geologica” unica al mondo. Questo è stato raccontato lo scorso ottobre a Ornavasso e Pieve Vergonte dal geologo Alberto Zanetti (CNR) e da Othmar Müntener (Università di Losanna) nell’ambito del progetto internazionale DIVE finalizzato ad esplorare la crosta continentale profonda e la sua transizione verso il mantello. La zona di transizione si chiama Moho, dal nome di un geologo croato che l’ha individuata. Perché questa unicità casuale? A partire da circa 270 milioni di anni fa, durante la collisione tra la crosta profonda africana e quella europea, la crosta africana si è alzata di 90°: qui emergono rocce che a Milano sono a 35 km di profondità. Bucando la Terra qui, può essere possibile raggiungere la Moho. Lo scorso anno una perforazione di 600 m non ha permesso di raggiungerla, pur fornendo dati scientifici unici (il “buco”, da 12 a 8 cm, è rimasto e permetterà in futuro di essere utilizzato per altre esplorazioni scientifiche). Le rocce estratte con il carotaggio sono state portate al deposito internazionale di Spandau in Germania dove sono studiate da 30 gruppi di ricerca di tutto il mondo. Uno dei risultati più rilevanti è stata la scoperta in profondità di microorganismi di cui non si conosceva l’esistenza. L’uomo si è sempre domandato se vi sia la vita su altri pianeti. Forse una risposta potrebbe venire dalle rocce di Ornavasso. Quest’anno l’obiettivo a Pieve Vergonte è quello di perforare fino a un chilometro, con la speranza di raggiungere la zona di transizione tra crosta terrestre (le rocce solide) e mantello (il magma). Sarebbe la prima volta nella storia della scienza.
Una parola al mese
2. Grà
L’escursionista, camminando da Cicogna a Velina in Valgrande, individua nel bosco fitto giganteschi arbul (castagni da frutto), monumenti vegetali radicati sul pendio ripidissimo. Viene da chiedersi come fosse possibile che i ricci in autunno non rotolassero fino al torrente. La risposta è che ai piedi degli arbul, sul fronte a valle, venivano costruite delle piazzole con pali di legno che trattenevano la terra per impedire la dispersione del raccolto. I ricci venivano fatti cadere ancora verdi tramite lunghe pertiche (sciumarol) e quindi raccolti e trasportati nei gerli fino ad apposite piazzole dove veniva costruita la risciàa, un mucchio di ricci coperto da flecc (felci) ed erba e pressato con sassi e legni. Della risciàa (la ricciaia) vi ho parlato lo scorso autunno. Quest’anno vi parlo della grà, un monosillabo aspro e secco come la vita su questi monti. Dopo la raccolta, le castagne venivano dericciate e messe a essiccare sulla grà, un graticcio di rami di castagno appositamente costruito nel locale principale della baita. Al centro della stanza vi era la brantàna, un focolare quadrato definito da cordoli di sasso con al fondo una grande lastra di pietra (in molte baite il pavimento era in legno, perché sotto vi era la stalla). Sulla brantàna veniva acceso un fuoco molto lento che produceva fumo e calore, ma non fiamme; le castagne venivano rimescolate sovente per gli otto e più giorni che durava l’operazione. Finita l’essiccazione le castagne venivano battute con la spavigia (un bastone con al fondo una tavoletta in radica di noce) per togliere buccia e pellicola; quindi, per togliere le impurità rimaste, venivano fatte saltare nel val, un ventilabro di rami di nocciolo intrecciati. La castagne bianche ottenute, i castegn d’la grà, venivano vendute a Intra in cambio di riso, farina, zucchero. Una parte venivano accumulate e consumate con il latte e il vino merican (quando c’era, anche con lo zucchero); un’altra parte veniva portata a macinare a Cossogno per cuocere il castagnaccio. Alla fine dell’autunno, la strada per Cossogno vedeva gruppi di donne vocianti con le gerle colme di castagne d’la grà scendere a Intra a commerciare quei pochi prodotti della montagna: era un’occasione attesa e desiderata per rientrare nel mondo dopo la solitudine dei lunghi mesi estivi.
In alto:
-la Cà d’la grà. (da: AA.VV. “La civiltà della fatica – Guida al sentiero natura Cicogna – Alpe Prà” Parco Nazionale Val Grande, 1999).
-la sbattitura delle castagne secche per togliere la pelle. (da: C. Bergamaschi “La vita quotidiana in Valle Cannobina nell’ultimo secolo” Alberti, Verbania, 1997)
Storia
3. Il racconto di un viaggio straordinario
Vi racconto un viaggio straordinario. I grandi viaggi li fanno non solo gli uomini sognatori, anche le pietre (pensate ai monoliti di Stonehenge). La basilica di San Paolo Fuori le Mura in Roma è la più grande chiesa della cristianità antica. La notte del 15 luglio 1823 un incendio la distrusse completamente. Papa Leone XII ordinò subito la ricostruzione. Per il colonnato fu scelto il granito bianco di Montorfano, sul lago di Mergozzo in Piemonte: una pietra durissima ed eterna, abbagliante nel suo biancore con venature bigie, unica come il vicino marmo rosa di Candoglia con cui fu costruito il duomo di Milano. A partire dal 1827 furono scavate e portate a Roma 82 gigantesche colonne per la ricostruzione della basilica. Oggi sono ancora lì. Le colonne vennero trasportate per via d’acqua a Milano, come 400 anni prima il marmo per il duomo ambrosiano, dove vennero rifinite e lucidate, quindi via Ticino e fiume Po a Venezia. Qui, caricate su navi pontificie, circumnavigarono l’Italia e, attraverso lo stretto di Messina, raggiunsero la foce del Tevere e quindi la basilica. Tempo di ogni viaggio: da quattro mesi ad un anno a seconda delle condizioni di navigabilità. Un’impresa titanica. Uno storico (Egisto Galloni, 1988) scrisse: “Le colonne dell’Arco trionfale costituiscono i blocchi più grandi di granito che siano mai stati messi in opera dopo la caduta dell’impero romano.” I numeri ci aiutano a capire l’avventura di uomini e pietre. Le due colonne dell’arco trionfale sono alte ben 14,5 metri con una circonferenza di base di 4,6 metri e una massa stimabile di oltre 62 tonnellate. Le ottanta colonne delle navate sono alte 11 metri con una circonferenza di base di 3,5 metri e una massa stimabile di quasi 28 tonnellate. Sono giganteschi monoliti scavati da una montagna ai piedi delle grandi Alpi e portati via acqua a Roma. Onore agli uomini che hanno concepito l’impresa, agli scalpellini che le hanno estratte dalla montagna e ai barcaioli che le hanno trasportate. Le grandi imprese non le compiono solo gli uomini illustri, ma umili uomini orgogliosi di eseguire un buon lavoro.
Il Montorfano e il fiume Toce che sfocia a estuario nel Lago Maggiore. Qui è cominciato il viaggio delle 82 colonne. (ph. Marco Comoli)
Archeologia
4. Le necropoli di Pedemonte e l’Antiquarium di Gravellona Toce
Tra il 1954 e il 1959 Felice Pattaroni, un archeologo “dilettante” dalle grandi e felici intuizioni, scoprì una necropoli a Pedemonte di Gravellona Toce. Fu una scoperta importante, in un’epoca di espansione edilizia dei paesi dopo la ricostruzione. Sono convinto che molte altre siano state “ricoperte” dalle imprese edilizie in assenza di nobili archeologi idealisti. La storia della archeologia alpina ricorda Enrico Bianchetti a Ornavasso e Michele Bionda a Bannio. La necropoli di Pedemonte ha offerto 126 tombe che raccontano quasi mille anni di presenza umana tra la bassa Val d’Ossola e il Lago Maggiore: dal V secolo a.C. fino al IV secolo d.C. Le tombe documentano tre tipi di relazione con la morte, forse di tre religioni differenti che si sono succedute o hanno coesistito (l’hanno fatto duemila anni fa, può essere possibile oggi!): a cremazione, a inumazione e a cremazione indiretta (i morti venivano cremati e le ceneri deposte in pozzetti di forma quadrata). Le necropoli documentano la civiltà di Golasecca, incontro e mescolanza culturale tra Celti ed Etruschi, quella dei Leponti e la seguente romanizzazione: la prima “globalizzazione” nella storia dell’uomo. Pensate che, ad Impero costituito, le legioni romane impiegarono vent’anni a conquistare le Alpi, un “cancro di libertà” nel cuore dell’impero. Oggi questo percorso storico e documentato nell’Antiquarium di Gravellona Toce, un piccolo museo accogliente e affascinante che espone, con un allestimento moderno, numerosi reperti delle necropoli di Pedemonte. Da vedere in un pomeriggio di pioggia. Resta da dire che i reperti più importanti (la splendida “tomba della principessa”) sono esposti al Museo di Antichità di Torino.
In alto
– Pedemonte, tomba 8 – piccola scultura in ambra pubblicata sulla copertina di F. Pattaroni “La necropoli gallo-romana di Gravellona Toce” (1986);
– Gravellona Toce in una foto aerea del 1944 (da Pattaroni, 1986).
Personaggi
5. Giannino Piana
È mancato, ad Arona sul Lago Maggiore, lo scorso ottobre Giannino Piana. Nato e cresciuto a Ornavasso, ritornava sempre in estate in paese dove, prima della lunga e sofferta malattia, venivano a trovarlo nella casa di famiglia i più importanti esponenti della cultura cattolica italiana: Enzo Bianchi, Luigi Ciotti, il biblista Gianfranco Ravasi, il cardinale Carlo Maria Martini. Giannino insegnò per molti anni al seminario di Novara di cui fu anche preside e fu ordinario di Etica del Cristianesimo all’università di Urbino, alla cattedra di scienze religiose, la prima istituita da un’università laica in Italia. Fu anche professore ordinario di Etica all’università di Torino e presidente dell’associazione teologica italiana per lo studio della morale. Tra le sue opere ricordo “Sapienza e vita quotidiana” (1999) e “Umanesimo per l’era digitale” (2021), mentre è in uscita “Dell’ultimo orizzonte. Questioni etiche sul fine vita”, una sorta di testamento intellettuale e spirituale. A Novara fondò, con lo psichiatra Eugenio Borgna, il Festival della Dignità Umana, il simbolo di una vita dedicata alla ricerca sull’Uomo. Una ricerca condotta con rigore, apertura e lucidità di pensiero che è modello per noi studiosi. Molti sono i riconoscimenti civili ricevuti: nel 1992 il Sigillum di Novarese dell’Anno conferito dalla città di Novara e nel 2019 il prestigioso premio Repubblica dell’Ossola, ma anche la Sirena d’Oro assegnatagli a Ornavasso a cui fu sempre molto legato. Ho avuto la fortuna di collaborare con lui per molti anni nel comitato scientifico dell’Istituto Storico della Resistenza di Novara e VCO. Da Giannino ho imparato la forza del dialogo e dell’ascolto pur nella fermezza salda dei principi; anche la necessità dei compromessi per costruire e progredire. Mi mancheranno le lunghe telefonate serali in cui discutevamo di politica e affrontavamo i temi più scottanti dell’attualità culturale in Italia. Fu uomo mite e generoso, ma anche capace di grandi e coraggiose battaglie ideali come la scelta di schierarsi a favore del divorzio e la difesa dei diritti delle donne e degli omosessuali. Lo ricorda Enzo Bianchi, monaco e priore della comunità di Bose: “Da fratelli abbiamo sofferto e combattuto battaglie”. Sull’annuncio funebre i parenti hanno scritto: “Ci mancheranno la tua premura per la sorte degli altri e lo sforzo esemplare di vivere e pensare con giustizia.” Mancheranno anche a noi tutti.
Libri
6. “Voglio bene a Migiandone”
A nord di Ornavasso, oltre la “Stretta di Bara” che separa la pianura padana dalle grandi Alpi, vi è Migiandone, un villaggio di 300 anime in cui il tempo sembra essersi fermato. Le estati sono fresche e luminose, in inverno per tre mesi non arriva il sole. La sera, quando la luce disegna nitidi i contorni dirupati dei Corni di Nibbio, nelle osterie giovani e vecchi discutevano di tagli di fieno, di lavori nei boschi e delle greggi di capre al pascolo brado sui monti. Le origini del paese sono legate ai Walser, tenaci coloni di origine tedesca che lo insediarono nel XIV secolo come espansione demografica dalla vicina Ornavasso. Nel corso dei secoli, l’esigua comunità iniziale crebbe operosa nel settore edilizio e nel commercio del carbone. Una fortunata emigrazione nell’Ottocento trovò sempre nella devozione per la “Madonna nera” d’Oropa l’occasione per un ancoraggio sicuro alla terra natia. A questa comunità singolare, cresciuta in un paese “senza sole in inverno”, nel 1975 don Remo Bessero Belti (1915 – 2004), raffinato studioso e dotto Padre rosminiano, dedicò un libro straordinario: “Voglio bene a Migiandone”. L’opera, unica nel suo genere, ricostruisce la storia civile e religiosa della comunità, ma soprattutto delinea nitida la memoria e l’identità collettiva dei suoi abitanti. Un atto d’amore per la “piccola patria”.Mi raccontava don Remo che fu direttore del Centro internazionale di studi rosminiani di Stresa e con cui scambiavo una dotta corrispondenza: “Vedi, in inverno noi a Migiandone, quando guardiamo il lato opposto della valle con i villaggi baciati dal sole, sentiamo ancora più freddo!”. Eppure lui ha voluto tanto bene a Migiandone. A cinquant’anni dalla prima edizione, oggi introvabile, è edita una seconda edizione in versione moderna, voluta dalla Parrocchia S. Ambrogio in Migiandone. L’iniziativa conferma l’affetto della comunità per il suo concittadino più illustre e al contempo il legame saldo e mai reciso per una terra aspra ma buona.
Libri
7. “La voce della montagna”
Uscirà a fine novembre un libro a cui tengo molto. A un anno dalla scomparsa, raccoglie 61 articoli dell’amico di sempre Walter Bettoni con cui ho condiviso 25 anni di giornalismo appassionato nella testata di montagna “Il Rosa”. Io ne ero il direttore e lui lo storico caporedattore. Il primo articolo risale al 1971, l’ultimo all’estate 2022. Mezzo secolo di impegno inesausto, assolutamente volontario e gratuito, a servizio della sua terra: la Valle Anzasca. È stato un impegno intellettuale condotto conciliando il lavoro, la famiglia e il giornale. Tre valori etici e morali hanno guidato il suo impegno giornalistico e sociale. Il primo è stato la valorizzazione dell’identità territoriale, l’ancoraggio saldo alla storia, al folklore, ai valori comunitari di una valle di montagna in tempi di repentini cambiamenti sociali. In questo ambito si inquadra l’impegno per la conservazione e la divulgazione della memoria della straordinaria stagione mineraria dell’estrazione dell’oro conclusasi nel 1961 con la chiusura di Pestarena, l’ultima miniera d’oro delle Alpi. Questo impegno si è espresso come redattore de “Il Foglio d’Oro”, edito annualmente dall’associazione “I figli della miniera”, da lui fondata con altri. Il secondo valore è stato il rispetto grande e assoluto per la natura e i valori ambientali. In questa antologia vi sono articoli di commovente emozione per quanto la natura, anche severa come quella delle Alpi, può dare agli uomini di ieri e di oggi. Lungimirante in questo senso la proposta del 2001, ignorata e disattesa, per l’istituzione di un Parco Internazionale del Monte Rosa. Sono convinto che le buone idee hanno semina lunga e raccolti improvvisi. Il terzo valore è la ricerca di futuro, complesso e ancora incerto per le terre alte. Un futuro da costruire all’insegna dello sviluppo sostenibile e compatibile con il rispetto dell’ambiente naturale, valore assoluto per i territori alpini e non solo. Una cifra unica accomuna la scrittura giornalistica di Walter Bettoni: l’uso sapiente e misurato dell’intervista, l’unica che permette di dare voce alle donne e agli uomini che a volte voce non hanno. L’utilizzo dell’intervista per raccontare sogni e dolori di gente senza privilegi e apparentemente senza gloria permette di trasformare il parlato in scrittura. Un impegno gravoso quanto nobile.