Paolo Crosa Lenz Lepontica 36 Dicembre 2023
Sommario
1. Elogio della Val Grande
2. Wuost e Wysen
3. La convivenza invernale tra uomini e animali
4. Das verlorene Tal – La valle perduta
5. Villadossola: 8 novembre 1943
6. Maria Vittoria Zeme
7. Almanacco Storico Ossolano 2024
Natura
1. Elogio della Val Grande
La Val Grande è una valle di montagna, fra il Lago Maggiore e le Alpi Lepontine, dove da mezzo secolo l’uomo ha cessato di vivere e operare e l’ambiente naturale ha ripreso ad evolversi liberamente. A meno di 100 chilometri da Milano, in una delle aree più densamente popolate d’Europa. È un luogo straordinario che esprime alcune contraddizioni, esigenze e conflitti etici della società contemporanea (la necessità di porre limiti allo sviluppo, l’urgenza di una compatibilità ecologica dell’economia). Per noi che viviamo ai suoi piedi e ci camminiamo spesso, la Val Grande è un pezzo di casa. Sono nato a Ornavasso e per tutta la vita, alzandomi il mattino, lo sguardo è stato definito dalla catena frastagliata dei Corni di Nibbio, una muraglia di rocce e boschi. Un amico mi disse un giorno: “Come fai a vivere in un paese senza orizzonte?”. Gli risposi che quelle creste aspre e quelle vette aguzze erano il nostro orizzonte, un confine da superare per sognare spazi sconfinati e idee nuove. La Val Grande è un’area a “wilderness di ritorno”. Wilderness con il significato di territorio in cui la natura si evolve liberamente senza intervento umano; “ritorno” perché questa condizione è un fatto recente dopo secoli di intenso ed estremo utilizzo delle risorse. La Val Grande è “ritornata” selvaggia. Sabato 18 novembre a Verbania è stato organizzato un convegno sui 30 anni di istituzione del Parco Nazionale della Val Grande, il primo parco italiano di “seconda generazione”. Ognuno ha detto la sua. Anche io l’ho fatto. Mi sono persuaso che siano tre i valori ambientali della Val Grande: uno naturalistico (la wilderness “di ritorno”), uno antropologico (un museo ecologico sulla civiltà rurale montana), uno etico (il rastrellamento del giugno 1944 e la lotta partigiana nella Resistenza). La Val Grande, sofferta e abbandonata, può essere portatrice di valori ancora necessari per il nostro vivere quotidiano: la nobiltà della fatica, l’impegno comune per raggiungere una meta, una solidarietà vissuta, l’equilibrio con la natura. La Val Grande può dare ancora molto agli uomini di oggi: non più erba e legna, ma ricreazione e valori buoni.
Ponte Velina, nella bassa Val Grande
Cima Pedum, nel cuore della Val Grande
Una parola al mese
2. Wuost e Wysen
Sono parole dell’inverno. Inverni di una volta quando la montagna di Ornavasso, intensamente abitata e vissuta nel corso dell’estate, diventava wuost (deserta) e wysen (bianca). Il silenzio vi regnava sovrano e assoluto. I weden (pascoli) riposavano sotto la neve in paziente attesa della primavera. La montagna dei bambini, delle pastore e dei vecchi tornava wildi (selvatica). Gli animali wild (selvatici) tornavano ad essere i padroni assoluti di boschi e rocce; solo loro percorrevano gli impervi sentieri dei monti. La wisla (donnola) e la wattergogunu (salamandra) erano signore della montagna, mentre fra gli alberi risuonava il canto monotono ma vivo del kukoli (cuculo). Dalla montagna scompariva invece schnake (lumaca), che andava in letargo nei mesi più freddi e quando scarseggiava il cibo. Nel villaggio di fondovalle donne e uomini, vecchi e bambini andavano a letto presto, quando avveniva zumulo (il tramontare del sole).
Tutti però si alzavano al canto di hanele (gallo), perché era il tempo di sckwin, il maiale la cui macellazione era rito collettivo, festa di comunità al termine di una stagione di lavoro e fatiche sui monti. Oggi non è più così. Sono solo memorie di vecchi. Questi giochi di parole sono solo suoni di una lingua morta e permessi da preziosi vocabolari, compilati da studiosi solitari e sognanti. Una cosa è rimasta: dopo la tempesta sempre ritorna rachbocho, l’arcobaleno potente ed effimero che ridona pace e speranza alle donne e agli uomini.
Natura
3. La convivenza invernale tra uomini e animali
Gli sport invernali (escursionismo, ciaspole, scialpinismo, sci fuori pista, free ride) si sono diffusi negli ultimi decenni in modo esponenziale sull’arco alpino. Queste attività, in aree spesso remote e delicate per l’ambiente, si sono rivelate dannose per lo svernamento della fauna selvatica, in una stagione quanto mai difficile e rischiosa per gli animali. Con iniziativa pionieristica in Italia, mutuando altre esperienze innovative in Francia, Svizzera e Austria, l’ente di gestione delle Aree Protette dell’Ossola (gestisce i tre parchi naturali di Antrona, Veglia e Devero) ha individuato due aree di tranquillità “a maggior tutela” nell’areale compreso tra il Monte Cazzola e il vallone di Misanco all’alpe Devero, in un’area ad elevata frequentazione invernale. Questo perché, dopo lunghe ed attente indagini naturalistiche, l’impatto delle attività invernali influisce negativamente sullo svernamento di due specie emblematiche: Fagiano di Monte (Lyrurus tetrix) e Pernice Bianca (Lagopus muta). Le “aree di quiete”, individuate attraverso sopralluoghi e verifiche il passato inverno, condivise con le comunità locali e con la proficua collaborazione dei gestori gli impianti di risalita, sono perimetrate in maniera chiara ed evidente e sono posizionati pannelli informativi alle stazioni di valle e di monte degli impianti di risalita del Monte Cazzola, nonché all’ingresso della traccia di salita in località Pedemonte. L’iniziativa è coerente con il principio etico della coesistenza tra uomini, piante e animali sulle Alpi, specialmente in ambienti e stagioni critiche per tutti. Da anni è maturata in Europa questa nuova esigenza di gestione invernale delle attività sportive compatibili con il diritto all’esistenza e alla riproduzione delle specie animali: i progetti Resicets e Be Part of the Mountain hanno permesso di maturare questa esperienza innovativa. A chi la ritiene una limitazione della libertà di salire le montagne in inverno, faccio notare che a Devero, come su tutte le Alpi, c’è un terreno sconfinato e aperto dove vivere pienamente e liberamente le proprie avventure nella natura. Si tratta solo di rispetto per gli altri, siano uomini o animali selvatici.
Alpe Devero e gallo forcello in parata (Ph. Radames Bionda)
Leggende delle alpi
4. Das verlorene Tal – La valle perduta
Lady Cole, moglie del giudice inglese H. W. Cole, fu una delle prime viaggiatrici sulle Alpi e visitò l’Ossola nel 1856 e 1858. Pubblicò uno straordinario resoconto di viaggio (A Lady’s Tour Round Monte Rosa, London, 1859) in cui racconta l’esperienza vissuta a Macugnaga il 3 settembre 1858. «Subito dopo l’inizio della salita, Gaspare richiamò la nostra attenzione sulla celebre sorgente che scaturisce dall’erba formando un torrente pulito e cristallino chiamato il Brunnen Pecetto. Ci divertimmo nello scoprire che Gaspare, malgrado la sua cultura e la sua intelligenza, credeva fermamente nelle leggende legate a questa sorgente e che gli avevano raccontato quando era un bambino; ci assicurò seriamente che due cacciatori del distretto erano riusciti, circa mezzo secolo fa, a raggiungere la famosa “valle perduta” facendosi strada lungo il passaggio sotterraneo dal quale ora sgorga l’acqua, ma disse che in quel periodo era asciutto. Trovarono una ricca valle prospera di fertili campi, di folti alberi e di tutto quanto può riempire di gioia il cuore di un agricoltore alpino. Ritornarono nella loro valle natia e raccontarono le loro avventure, ma un brusco cambiamento avvenne nel ghiacciaio: sbarrò l’accesso del passaggio sotterraneo creando la sorgente che ora scaturisce. Di fronte alla nostra incredulità, Gaspare sembrò molto ferito e ci assicurò che l’ultimo dei due cacciatori era morto nel paese non più di 15 anni fa e nessuno dubitava della verità delle loro affermazioni.» La leggenda è conosciuta a Gressoney, Alagna e Macugnaga per la quale a nord del Monte Rosa esisteva in tempi remoti una valle ricca di boschi, di pascoli e di acqua, e non abitata da uomini. Un’Atlantide tra alte montagne a cui tendere nelle nostre fatiche quotidiane.
Storia
5. Villadossola: 8 novembre 1943
A Villadossola, l’8 novembre 1943, è avvenuta la prima insurrezione di tutta la Resistenza italiana contro l’occupazione tedesca e la fascista Repubblica Sociale Italiana. Questo due mesi dopo l’armistizio e il formarsi delle prime bande partigiane. Una guerra durata un giorno e guidata da un operaio siderurgico della SISMA, Redimisto Fabbri che, con altri (Dante Zaretti, Mario Benini, i fratelli Scrittori, Giovanni Zaretti) aveva organizzato all’alpe Pianasca una prima “banda” partigiana. Con loro un gruppo di partigiani provenienti dai GAP milanesi, arrivati in Ossola alla fine di settembre, che si erano uniti prima ai partigiani di Mario Muneghina e poi al gruppo di Dionigi Superti in Valgrande. Nell’episodio c’è simbolicamente tutto: la montagna, gli operai e la fabbrica, la guerra di liberazione, la Resistenza come “secondo Risorgimento”: le donne e gli uomini del popolo che presero in mano il loro destino. Il piano, condiviso con gli altri gruppi operanti nella zona, prevedeva l’occupazione militare di Villadossola e l’insurrezione operaia nelle fabbriche. L’operazione prese avvio la mattina dell’8 novembre, con l’occupazione da parte degli insorti dei punti strategici della città (le caserme della Guardia di Finanza e dei Carabinieri, le Poste, la stazione e gli stabilimenti industriali), mentre le fabbriche erano in rivolta. La popolazione locale si unì agli insorti e insieme riuscirono a respingere i ripetuti tentativi di contrattacco nemico. Il giorno successivo le forze nazifasciste sferrarono il contrattacco con un massiccio intervento di mezzi e uomini, richiamati da tutti i presidi dell’Ossola, e il bombardamento aereo dell’abitato, durante il quale morirono quattro civili. I partigiani tornarono in montagna e il 9 novembre la città fu nuovamente sotto il controllo tedesco. Ma il messaggio era stato lanciato e “la scintilla” si era accesa. La sala consigliare del municipio di Villadossola, che nel decennale dell’insurrezione venne insignita dall’ANPI di Medaglia d’Oro al merito partigiano, è intitolata alla storica data dell’8/11/1943. A ricordare quelle vicende storiche è stata allestita a cura della locale sezione ANPI una sala storica con oggetti e documenti. Un recente documentario di Marzio Bertolucci (“La scintilla”, Lutea Produzioni, 2023) racconta con immagini e testimonianze l’episodio. Carlo Squizzi (“8.11.43 – I primi partigiani e l’insurrezione di Villadossola” La Pagina, Villadossola, 1987) ricostruisce in un libro denso e commovente la prima insurrezione della Resistenza italiana.
Redimisto Fabbri
Personaggi
6. Maria Vittoria Zeme
Vi racconto la storia, sicuramente poco conosciuta e che ho scoperto grazie all’amico Giorgio Danini della Casa della Resistenza di Fondotoce, di una crocerossina, quelle donne che dedicano la vita agli altri. “Ama, conforta, lavora, salva” è il motto delle crocerossine volontarie. Lei si chiama Maria Vittoria Zeme e ha testimoniato con coerenza ferma per tutta la vita quei valori. Dall’aprile 1941 prestò servizio all’ospedale militare territoriale di Baveno fino al maggio 1943, per essere poi trasferita all’ospedale di campo 536 di Atene. Dal 6 novembre 1943 al 6 giugno 1944, fu nel Reservelazarett Stalag IV B Zeithain in Sassonia a curare gli internati militari italiani. I “suoi” soldati. Era un campo durissimo per mancanza di cibo e condizioni igieniche estreme, inizialmente destinato ai militari prigionieri russi e poi agli italiani. Pur potendosi avvalere della condizione di personale sanitario, secondo la convenzione di Ginevra del 1929, Sorella Maria Vittoria Zeme decise comunque di seguire i soldati dietro i reticolati, scelta condivisa da altre crocerossine e pure da alcuni cappellani militari come don Remigio Biancossi di Bognanco. “Ogni giorno, fame, freddo, cimici, pidocchi e grossi topi. Manca tutto, eppure ci sono forze straordinarie per andare avanti, la preghiera e la fede, l’assistenza e il conforto che si può dare a tanti giovani soldati che muoiono”. Raccontò Maria Vittoria Zeme in un prezioso diario. “Le condizioni di vita erano sofferenza inumana, solo dolore e morte. Le uniche forze che ci sostenevano erano il conforto che potevamo dare agli altri e la fede in Dio. […] I tedeschi chiedevano insistentemente a me […] di abbandonare i miei soldati infermi, di dare l’adesione al risorgente fascismo e di collaborare con la grande Germania nazista: solo così avrei potuto riabbracciare i miei cari. Ho rifiutato, ho rinnovato ogni giorno la mia scelta vicino ai miei soldati malati”. Un pannello di memoria è stato recentemente posizionato a Fondotoce dall’ANPI. A proposito di donne forti.
Storia e letteratura
7. Almanacco Storico Ossolano 2024
È nelle librerie l’Almanacco Storico Ossolano 2024. Da trent’anni (1994 – 2024), grazie all’iniziativa coraggiosa del libraio editore Alessandro Grossi di Domodossola che aderì all’intuizione di Edgardo Ferrari, raccoglie contributi di ricercatori e studiosi sulla storia della Val d’Ossola. Racconta l’identità profonda di una valle di montagna. Come tutti gli anni propongo l’indice dei contributi, che penso indichi la vitalità culturale e la ricerca orgogliosa di identità territoriale di una valle di montagna.
Luigi Zoppetti – La Repubblica dell’Ossola, magnifico esempio di sofferta umanità.
Sergio Romano – Vittore Ceretti, ingegnere con il sogno alpino nel cassetto.
Enrico Borghi – Fausto Del Ponte, un maestro e un esempio.
Gian Vittorio Moro – L’aquila solitaria “Amo molto la solitudine perché mi dà tempo di riflettere e di elaborare”.
Raffaele Fattalini – Carducci in Val d’Ossola “Non mi rompa i corbelli”.
Lino Cerutti – La famiglia De Albertis di Vanzone.
Enrico Rizzi – Un illustre pittore formazzino: Felix Maria Diogg (1762-1834).
Elisa Nunziatini Salbi – Carlo Ravasenga. Alla riscoperta di un musicista e compositore “ossolano”.
Marco Sonzogni – Ossolani alla battaglia di Adua.
Paolo Crosa Lenz – I garibaldini dell’alpinismo.
Alessandro Zucca – È la mia, ed è la più bella.
Giacomo Bonzani – Francesco Padovani Cechin (1891-1980).
Giulio Tonelli – L’origine della centrale idroelettrica del Boschetto della Pietro Maria Ceretti di Villadossola. Marco Mantovani – Luigia Bighelli, fotografa.
Cesare Rainoldi – Il calendario lunare e i cicli produttivi nell’Ossola del ‘700.
Val Divedro e Sempione
Bruno Stefanetti – Statuto, Vallis Diverti 1321/1322.
Tullio Bertamini – Alpe Veglia: secoli di vita pastorale.
Massimo Gianoglio – Emigranti varzesi nel Canton di Vaud tra il XV e il XVI sec.
Enrico Rizzi – La posta a cavallo sul Sempione (XVII-XVIII).
Massimo Gianoglio – La Strada del Sempione nella stampa periodica di inizio Ottocento.
Giulio Frangioni – L’Ospizio napoleonico del Sempione.
Teresio Valsesia – I Roggia di Varzo, una famiglia di guide.
Massimo Palazzi – Sempione sconosciuto. Ricerche e scoperte nelle Alpi Lepontine.
Giulio Bazzetta – Due leggende dell’Alpe Veglia.
Luciana Del Pedro – Il teatro di Trasquera.
Pier Antonio Ragozza – Divedro, la valle dell’ultima frontiera. I ghiacciai scomparsi dell’Alpe Veglia
In alto: Someggiatori in Val Formazza
A lato: I ghiacciai scomparsi dell’Alpe Veglia