Paolo Crosa Lenz Lepontica 38 Marzo – Aprile 2024
Sommario
1. Il ritorno del castoro
2. Gemellaggio tra geopark di Imbabura e Sesia Val Grande
3. Akchren e land
4. La battaglia di Megolo (13 febbraio 1944)
5. I 150 anni della sezione CAI Verbano Intra (1874-2024)
6. I “garibaldini” dell’alpinismo
7. Roberto Rabattoni (1944 – 2024)
Natura
1. Il ritorno del castoro
A volte ritornano. Sono gli animali, nei decenni scorsi considerati estinti, che tornano a vivere come un tempo nei nostri fiumi, nei nostri boschi, sulle nostre montagne, sui nostri cieli. Sono il lupo, la lince, l’orso, il gipeto e oggi anche il castoro. Una fototrappola l’ha ripreso nella riserva naturale di Fondotoce sul Lago Maggiore alla fine di dicembre 2023 e segni di rosicchiamenti sono stati rinvenuti su salici e pioppi (li abbatte per mangiarne gli apici). Il castoro non è un topolino: può pesare anche 30 chili e arrivare a una lunghezza di un metro e mezzo. I segni della sua presenza sono stati rilevati dall’amico naturalista Andrea Mosini della “Cooperativa Valgrande”, da sempre impegnata nella cura e nello studio delle nostre montagne. L’ipotesi è che il castoro provenga dalla Svizzera, dove nel vicino Vallese da tempo sono presenti colonie stabili. Chissà perché vengono tutti dalla Svizzera questi animali liberi e selvatici! Fonti storiche lasciano intuire che il castoro sia assente da cinque secoli nei boschi e nei fiumi del Verbano e dell’Ossola. La “grande estinzione” degli animali selvatici sulle nostre montagne (gipeto, lince, orso, lupo, castoro) non è frutto di natura, ma di cultura. È l’uomo che non permette competitori e non sopporta diversità. Ieri gli animali, oggi i migranti. L’“uomo nuovo” (i nostri giovani) è quello che sostituirà l’imperativo competizione con l’imperativo convivenza. Qualche politico ha salutato l’avvistamento come “un altro flagello”, per fortuna altri l’hanno considerato un “buon ritorno”. Ancora una volta le montagne si rivelano uno spazio libero dove tutti possono vivere insieme nel rispetto reciproco. Uomini, animali, piante e acque. Mi impegno a raccontarvi nei prossimi mesi la storia delle estinzioni degli animali selvatici sulle Alpi Pennine e Lepontine. Per ora: bentornato castoro. Il mio mito rimane comunque M29, l’orso (anche lui non è un topolino!) che vaga per le nostre valli e nessuno lo vede. Presente e inafferrabile.
Geologia
2. Gemellaggio tra geopark di Imbabura e Sesia Val Grande
La geologia unisce il mondo. Vi parlo di due parchi geologici lontani che stanno diventando vicini. L’Imbabura UNESCO Global Geopark si trova in Ecuador, in una regione montuosa caratterizzata da complessi vulcanici, laghi, cascate, faglie geologiche, miniere, resti archeologici. Il parco copre un’area di 4600 km2, la vetta più alta è il vulcano Cotacachi (4.939 m), il punto più basso è il fiume Guayllabamba (600 m). Numeri enormi per la vastità delle Ande; oltre 4.000 m di dislivello. In mezzo vi sono tredici vulcani, alcuni potenzialmente attivi, altri dormienti o estinti. La capitale della regione (420.000 abitanti) è San Miguel de Ibarra, la “città bianca” per le sue case coloniali. La regione ha importanza mineraria per l’estrazione di rame ed oro. Con la nascita del geoparco sono iniziati progetti finalizzati all’estrazione responsabile al fine di proteggere le popolazioni e gli ecosistemi. Lo scorso gennaio è stato avviato il gemellaggio tra i geopark di Imbabura e il Sesia Val Grande, che prevede collaborazioni scientifiche, scambi di informazioni e condivisione di progetti. Il geopark italiano è in questi anni impegnato nel progetto DIVE (a Ornavasso e Pieve Vergonte) che prevede il campionamento più profondo mai realizzato al mondo per comprendere la composizione della struttura interna della Terra e in particolare la moho, la zona di contatto tra crosta e mantello. L’accordo siglato avvia una cooperazione internazionale rivolta alla gestione sostenibile dei due geoparchi, alla valorizzazione della geodiversità e ad uno sviluppo territoriale coerente e compatibile con la tutela ambientale. Anche le rocce, apparentemente inerti e immutabili, possono unire gli uomini.
Una parola a mese
3. Akchren e land
Continuiamo con il gioco di parole di una lingua morta, come la civiltà rurale montana che le fu propria. Il periodo tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera (marzo e aprile) nei villaggi di fondovalle delle Alpi era di lavoro intenso per preparare land (la terra) all’estate. Nella campagna i prati (mäatti) andavano puliti per permettere la crescita dell’erba novella. Era un lavoro di donne e bambini e guai a fare schbrufu (tagliare malamente l’erba infestante): un severo giudizio collettivo colpiva chi non lavorava bene. I campi (akchren) dovevano essere preparati alla concimazione e soprattutto andava fatto witschini (raccogliere i rami portati dai venti invernali). Land era una terra preziosa, elemento anche di identità e orgoglio sociale per un lavoro ben fatto. Indicava anche il villaggio, la “piccola patria”, la land dei padri. Attorno al fiume Toce, la breve pianura alluvionale era stata prosciugata da schwampini (i terreni impaludati) con un enorme lavoro di bonifica che aveva impegnato generazioni di contadini di montagna. Oggi molti di questi prati e campi sono darleida (abbandonati). Ben diverso era nelle alte valli alpine, sopra i 1000 m di quota, dove gli inverni erano lunghi e le estati brevi. In Val Formazza, nell’Ottocento, la scuola iniziava a novembre e finiva in aprile per permettere ai bambini di spendere le loro giovani energie nei lavori d’alpe. Un proverbio formazzino raccolto dall’amica Anna Maria Bacher, raffinata poetessa e profonda conoscitrice del Pomattertitsch (la lingua walser di Formazza), recita: Märzu-schtöüb bringt Gras un Löüb (neve polverosa in marzo, erba grassa e molta foglia). Poi da aprile era proibito il pascolo libero degli animali sui terreni privati. Un altro proverbio dice: Wen t ischer for métti abrellä / aper chomän / de gengänsch im üf (Se i ghiacci scendono dai canaloni / prima di metà aprile / allora tornano su, se ne riformano altri).
In lto: La piana di Riale negli anni ’30 del Novecento, prima di essere sommersa dalle acque dell’invaso idroelettrico (da: Almanacco Storico Ossolano 2020, Grossi, Domodossola, 2019)
La campagna di Ornavasso alla fine di un inverno di molti anni fa, quando ancora la neve copriva prati e campi.
Resistenza
4. La battaglia di Megolo (13 febbraio 1944)
Tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 il Verbano Cusio Ossola visse pagine importanti nella storia della Resistenza italiana. La vicinanza con la Svizzera, terra di rifugio per perseguitati politici e razziali, il rilievo economico delle centrali idroelettriche e la presenza di industrie belliche “sfollate” fecero di questa terra di confine un luogo strategico nello scacchiere della Lotta di Liberazione. Subito dopo l’8 settembre 1943 si costituirono sui monti del Verbano Cusio Ossola bande partigiane formatesi con differenti motivazioni, ma accomunate dalla lotta al fascismo e all’occupazione nazista. I partigiani, protetti e nutriti dalla montagna, scrissero pagine alte e di limpido valore morale nel grande libro della Resistenza. Questo 2024 sarà un anno di importanti ricorrenze per “fare memoria” di avvenimenti e lezioni maturate 80 anni fa. Il 1944 fu un anno cruciale per la Resistenza sulle mie montagne: il passaggio dalla “guerriglia per bande” alle formazioni partigiane organizzate, il rastrellamento della Valgrande in giugno, la Repubblica dell’Ossola in settembre-ottobre. Fu un anno di sconfitte ma anche di vittorie. Iniziamo con una sconfitta. Dopo l’8 settembre 1943, Filippo Maria Beltrami, uomo di grande carisma conosciuto come “il capitano dei ribelli”, costituì sui monti sopra il Lago d’Orta una prima banda partigiana che in dicembre si fuse con quella costituita dai fratelli Alfredo e Antonio Di Dio a Massiola. Nacque la “brigata patrioti Valstrona”. In dicembre, sotto la pressione nazifascista del presidio di Omegna, Beltrami decise di trasferire la brigata nella bassa Val d’Ossola. In gennaio dopo un lungo ed estenuante cammino tra i monti, in un gelido inverno con molta neve, pose il nuovo comando a Megolo. Con lui una cinquantina di uomini. Il 13 febbraio 1944 all’alpe Cortavolo caddero in battaglia, dopo aver rifiutato la resa, Filippo Maria Beltrami e altri undici partigiani tra cui Antonio Di Dio e Gaspare Pajetta. Fu la prima grave sconfitta della Resistenza ossolana. L’omegnese Bruno Rutto radunò i resti della formazione creando la Divisione Beltrami che continuò la lotta del Capitano.
Filippo Maria Beltrami, il “capitano dei ribelli”, in un’immagine famosa e iconica; simbolica
dell’inizio della Resistenza sui monti del VCO.
Ricorrenze
5. I 150 anni della sezione CAI Verbano Intra (1874-2024)
Il 2 maggio 1874, ventotto cittadini di Intra fondarono la sezione Verbano del Club Alpino Italiano. Era la 14a sezione dalla fondazione del CAI (1863). I soci fondatori erano i rappresentanti della borghesia verbanese (imprenditori, professionisti, avvocati) che esprimevano la classe dirigente della “piccola Manchester del Verbano”. Primo Presidente fu Carlo Franzosini, imprenditore di una vetreria, fu sindaco di Intra, consigliere provinciale e deputato al Parlamento. Erano gli anni delle “Quattro Rosine”, le sezioni CAI ai piedi del Monte Rosa (Biella, Varallo, Domodossola e Verbano). Negli ideali dei soci fondatori, la sezione CAI era un segmento di un progetto sociale più ampio che portò alla fondazione della Banca Popolare di Intra e dell’Istituto Tecnico “Cobianchi”. La montagna, la banca, la scuola. Due settori impegnarono quegli uomini: il rimboschimento della montagna e la realizzazione di sentieri e rifugi. Fu elaborato un decalogo ecologico (“I dieci comandamenti del coltivatore di boschi”) e furono impiantati tre grandi foreste: il bosco “Roma” sul monte Cimolo, il bosco “Garibaldi” a Premeno e il bosco “Sella” al Mottarone. Per promuovere la frequentazione della montagna furono costruiti quattro rifugi: Cortano ai piedi del Mottarone (1881), Pian Cavallone (1883), Pian Vadà (1889), Bocchetta di Campo (1897). Fu promossa la costruzione del grande e lussuoso albergo “Mottarone” sulla vetta della montagna. Fu realizzato il “sentiero Bove”, intitolato all’esploratore Giacomo Bove (1852 – 1887), che percorre in cresta il periplo della Val Grande: fu uno dei primi percorsi attrezzati sulle Alpi. Nel 1897 fu costruita la “Colonia Alpina Regina Elena” per ospitare bambini gracili e poveri affetti da tubercolosi. Poi venne il Novecento, ma questa è un’altra storia. Questi 150 anni di ideali e di montagne verranno ricordati dalla sezione del CAI Verbano con un ricco programma di iniziative che culmineranno in novembre con l’assemblea dei delegati CAI di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta.
In alto: Ritratto di famiglia del CAI Verbano a fine Ottocento (Archivio Weiss)
In mezzo: il rifugio di Pian Vadà, costruito dal CAI Verbano nel 1889, lungo l’itinerario di salita al Monte Zeda
In basso: Fine Ottocento: alpiniste e alpinisti del CAI Verbano sulla “sala santa” che porta al Pizzo Marona.
Montagna
6. I “garibaldini” dell’alpinismo
Nel 1994 nasceva a Rovegro il “Gruppo Escursionisti Valgrande” che in trent’anni ha portato centinaia di camminatori a conoscere i monti allora sperduti e difficilmente percorribili della grande area wilderness alle spalle del Lago Maggiore. L’anno prima era stato istituito il Parco Nazionale, allora timida istituzione che muoveva i primi incerti passi e che trovò nell’associazione forti motivi di sostegno. L’associazione elesse l’alpeggio abbandonato di Corte Buè la propria sede simbolica e lì realizzò il Bivacco “Serena” oltre ad una baita sociale, un primo lungimirante modello di recupero di vecchi edifici rurali abbandonati per destinarli ad un nuovo uso di ricovero escursionistico. Un trampolino di lancio verso i misteri e i precipizi verdi di una valle di lungo abbandono. La cara amica Rachele Bottini, anima inesausta di tante buone iniziative, mi ha sempre ammonito che camminare in Val Grande era sì andare nella natura selvaggia, ma soprattutto nella memoria della gente che vi ha abitato e lavorato per secoli. Una memoria preziosa da conservare come un capitale per i nostri figli e nipoti. Dopo una prima affiliazione all’ARCI, il Gruppo Escursionisti Valgrande ha aderito all’UOEI (Unione Operaia Escursionisti Italiani) nata nel 1911 sui monti di Bergamo, che aprì ai lavoratori il mondo della montagna. Fu scritto: se il CAI era l’esercito, l’UOEI erano i garibaldini della montagna. Già allora, la montagna come spazio di libertà per tutti. Nacque per volontà di Mario Tedeschi, Luigi Brioschi (entrambi uomini CAI) e Ettore Boschi. Mario Tedeschi fu l’apostolo dell’escursionismo popolare (“le Alpi per il popolo”) e pioniere di un’idealizzazione della montagna come spazio di libertà senza distinzioni sociali. Luigi Brioschi fu alpinista di grande valore che nel luglio 1876 effettuò la prima salita della Punta Nordend sul Monte Rosa da Macugnaga. All’UOEI appartennero anche Guido Rey, “l’apostolo della montagna”, e il leader socialista Leonida Bissolati. Il motto dell’UOEI, negli anni ’30 sciolta dal Regime, era “Per il monte, contro l’alcol” e suo impegno costante fu la lotta contro l’alcolismo. Una montagna salvifica, fonte di riscatto sociale.
Personaggi
7. Roberto Rabattoni (1944 – 2024)
È mancato lo scorso 30 gennaio Roberto Rabattoni, l’imbianchino di Mergozzo che ha dedicato gli ultimi 40 anni della sua vita all’Africa. Uomo profondamente religioso, nel 1983 (aveva 39 anni) si era recato in Etiopia per adottare la prima figlia Elena. Rimase fortemente colpito dalle condizione di povertà e malnutrizione del paese africano. Al rientro in Italia fondò il “Centro aiuti per l’Etiopia” e da allora dedicò la vita a costruire ospedali, pozzi, scuole. Con il meccanismo dell’adozione a distanza salvò dalla fame milioni di bambini. Amava dire: “Penso che oggi far morire la gente di fame sia il crimine più grave del mondo”. Molte famiglie italiane devono molto a lui perché, grazie alla sua rete di solidarietà e di relazioni, permise l’adozione di bambini etiopi in Italia. Non eravamo amici, ma ci conoscevamo perché lui abitava ad Albo, al di là del fiume rispetto a Ornavasso. Quando ci incontravamo parlavamo d’Africa: lui di Etiopia, io un po’ di Tanzania perché lì operò per 50 anni Teresa Saglio, la missionaria laica di Ornavasso. Quando andai a trovare la Teresa con la famiglia nel 2009, mi portò a conoscere il vescovo della diocesi di Iringa, un vasto altipiano con villaggi sparsi a 1500 m nella savana. Mentre lo aspettavamo in un ufficio semplice e spoglio, l’occhio fu attratto da un grande quadro dietro la scrivania. Rappresentava un tramonto africano di fuoco, con una piroga e un rematore che sereno solcava le acque del lago Tanganica. Sopra c’era una scritta in swahili. Chiesi alla Teresa di tradurmela. Diceva “Quando viene la sera della vita, l’unica cosa che resta è il bene che hai fatto”. Credo che Roberto Rabattoni sia morto serenamente.