Paolo Crosa Lenz Lepontica/6 Marzo 2021
Sommario
1. L’anello forte
2. Le levatrici di montagna
3. Teresa Binda
4. “La si taglia i suoi biondi capelli”
5. La prima ministra della Repubblica
6. La “signora” dell’alpinismo ossolano
7. La Vegia dul Balm
Viva le donne
1. L’anello forte
Dedico il numero di Lepontica alle donne. Donne di montagna perché questa è la nostra terra.
Inizio però parlando di un uomo.
Nuto Revelli (1919 – 2004) fu, secondo me, uno dei quattro “grandi piemontesi” della letteratura del secondo Novecento (gli altri furono Cesare Pavese, Beppe Fenoglio e Italo Calvino). Come Mario Rigoni Stern, fu in Russia dove portò a casa la pelle, poi partigiano nella Resistenza. Fra i molti suoi scritti emergono due libri: “Il mondo dei vinti” (1977) e “L’anello forte” (1985). Entrambi sono il frutto di 270 interviste, stenografate e trascritte, a contadini del cuneese. Nel primo raccontò le storie dei contadini diventati operai (molti a Cuneo alla Nestlè, dalla cascina all’appartamento in condominio).
I “vinti” di Revelli non sono quelli di Giovanni Verga (esistenze individuali sconfitte dal destino), ma la fine di una civiltà contadina che seppe garantire continuità storica a destini collettivi. Vinti dalla storia e non dalla vita. Nel secondo libro, sempre studiando le trasformazioni delle colline nel basso Piemonte, affrontò il ruolo della donna nel mondo rurale. Vi sosteneva la tesi per cui la società contadina, strutturalmente fragile perché dipendente da variabili climatiche, non si disgregò ma continuò nel tempo grazie al ruolo centrale delle donne. Esse furono l’anello forte che assicurò forza lavoro, unità familiare e trasmissione della cultura.
La tesi dello studioso piemontese ribaltava decisamente l’immagine stereotipata della donna contadina, angelo del focolare e bestia da soma, per delineare un anello di stabilità ferrea, solo apparentemente dimesso e sottomesso, in una catena fragile e in balia di eventi esterni. L’emigrazione, le carestie e le guerre portavano gli uomini lontano (e a volte non tornavano!). Chi rimaneva ad assicurare il rinnovamento generazionale e la tenuta del tessuto sociale era la donna.
Donne che parlavano con Madonne frescate su cappelle alpestri e a cui raccomandavano figli scapestrati e mariti lontani (a cui cucivano di nascosto nella cintura erbe benedette per calmare i bollenti spiriti). Negli anni ’80 del Novecento, Nuto Revelli tenne lezioni alte all’Università di Torino. Ai giornalisti, che gli chiedevano come volesse essere definito, rispondeva: “Geometra, io sono un geometra.” Dopo lunga malattia, è sepolto a Cuneo, accanto alla moglie. Rubo questa immagine, come spesso, dall’ultimo libro dell’amico Enrico Rizzi. Siamo nel Lötschental in Vallese (G. Wehrli 1904).
Le donne walser, anche ad Agaro, fumavano la pipa. Il tabacco, coltivato anche in montagna e spesso di nascosto dalle autorità che lo avevano “nazionalizzato”, era fonte di piacere in una vita di pochi piaceri. Quasi un riscatto. Notate la bambina in alto che guarda giù dalla finestra il suo futuro.
Montagna
2. Le levatrici di montagna
Felicita Giannini fu l’ultima levatrice di Salecchio. Nativa di Agaro (8 febbraio 1885) dove aveva imparato i segreti del parto dalla madre. Era figlia di Giuseppe Giannini di Agaro (grande cacciatore che, ricorda la tradizione, uccise un camoscio in corsa con un archibugio) e di Celestina Della Maddalena di Salecchio. Sposò Giuseppe Pìn Della Maddalena e si trasferì a Case Francoli dove ebbe nove figli e una delle dieci mucche di famiglia sempre in stalla per avere sempre a disposizione un po’ di latte per sfamare la prole.
Da bambina era stata mandata a scuola a Mozzio da una zia, ma fu un’esperienza terribile in quanto era continuamente presa in giro dai compagni perché non capiva l’italiano e parlava solo l’aspra lingua walser. Ritornò presto ad Agaro e il suo matrimonio a Salecchio è indicativo dell’endogamia vigente tra le due comunità walser.
Felicita Giannini divenne ben presto l’ostetrica di Salecchio, svolgendo il ruolo che fino al 1937 era stato di Serafina Bucchi De Giuli.
“Quando la chiamavano per un parto imminente dicevamo che andava a ‘fare pancotto’ perché per 40 giorni alla partoriente veniva dato da mangiare solo quello.” Ricorda Ida Giannini.
“Quando nacque mio fratello Luciano nell’agosto 1952, l’ultimo nato a Salecchio Inferiore, ricordo che il pomeriggio ci fu un gran movimento nella casa paterna: nel locale del fornetto furono preparate delle coperte; noi bambini fummo mandati fuori casa con una scodella di caffelatte. Mia sorella Caterina era andata a Case Francoli a chiamare la Felicita; arrivò tutta vestita di nero e rimase con la mamma tutta la notte. Quando ci svegliammo all’alba abbiamo sentito il pianto di nostro fratello.” Ricorda Albina Pali.
Oltre che levatrice, Felicita Giannini conosceva i segreti delle erbe per preparare i decotti e l’uso del grasso di marmotta per curare le ossa. La famiglia di Pìn Della Maddalena caricava l’alpe Tanzonia, al Busin per 8-10 giorni, ma soprattutto l’alpe Giove (“era un buon alpe, ricco d’erba”).
Non solo lavoro, anche pochi e attesi momenti di svago. Nella grande stube di casa, la più grande di Casa Francoli, negli anni ’50 in occasione delle feste saliva un fisarmonicista e venivano a ballare da Vova e da Salecchio. Poi un giorno arrivò anche un grammofono a “riscaldare” le serate invernali.
Un’altra “levatrice” mi è cara. Maria Stefanazzi di Ornavasso (1920 – 2019), negli anni della guerra, in quel terribile 1944 faceva nascere bambini e curava i partigiani. L’amico Pierantonio Ragozza l’ha ricordata in un commovente articolo su “Nuova Resistenza Unita” (1/2021). Io sono nato in casa.
La incontravo spesso, in bottega a prendere il pane. Mi metteva una mano sulla spalla, poi mi dava una carezza sul coppino, con quelle sue mani grandi e piene di vita. Mi diceva: “Ricorda, tu hai studiato, ma io ti ho fatto nascere.”
Mamme partigiane
3. Teresa Binda
Mi ha sempre affascinato la storia di Teresa Adele Binda (1904 – 1944), fucilata con altri otto partigiani a Beura il 27 gennaio 1944, uno degli ultimi eccidi a conclusione del grande rastrellamento della Val Grande.
Era una giornata di sole e, in quel prato fuori il paese, il fieno era alto.
Era nata a Suna, faceva l’operaia (maestra di telaio alla Rhodiaceta di Pallanza), era rimasta vedova a soli 25 anni, l’anno dopo la nascita dell’unico figlio Gianni Saffaglio.
Quando il figlio decise di andare in montagna con i partigiani di Superti assumendo il nome di battaglia di “Gianni”, lei lo seguì e partecipò alla lunga marcia per sfuggire al rastrellamento di giugno.
Il figlio la lasciò ad alcuni contadini di Finero e Teresa rientrò a Suna, dove era molto conosciuta anche perché cugina del campione di ciclismo Alfredo Binda. I nazifascisti l’arrestarono, imprigionarono e torturarono per farsi dare notizie dei partigiani. Lei non parlò.
Fu portata a Beura e fucilata.
Nel 2003 è stato inaugurato un “sentiero partigiano” segnalato che percorre i luoghi del suo peregrinare tra i monti. È dedicato a tutte le donne che hanno combattuto e sono cadute nella Resistenza.
Nel 2008, il Presidente della Repubblica ha consegnato nelle mani del figlio Gianni la medaglia d’oro al merito civile alla memoria.
La motivazione recita: “Madre di un partigiano, catturata per rappresaglia, veniva segregata e torturata dai nazifascisti. Essendosi rifiutata di fornire informazioni ai suoi persecutori, veniva consegnata ai nazisti che barbaramente la fucilavano insieme ad altri prigionieri. Fulgido esempio di eccezionale coraggio, di fierissimo contegno e di profonda fede negli ideali di libertà e democrazia”.
Teresa Binda è ricordata da una lapide in via Gioberti a Suna. Voglio qui ricordare altre tre donne partigiane: Elsa Oliva, Maria Peron e Cleonice Tomassetti.
Vi invito a scoprire le loro biografie. Figure simboliche tra migliaia di altre.
Un domanda mi ricorre, quando studio queste cose: cosa avrà pensato la Teresa, quel giorno a Beura, in piedi nel fieno alto?
Amore e guerra
4. La si taglia i suoi biondi capelli
Nella coralità alpina c’è un canto che fa parte del repertorio di molti cori di montagna. L’ha scritto Renato Dionisi nel 1961 ed è entrato nel repertorio della SAT di Trento, Racconta una storia d’amore e di guerra (ne esistono varie versioni tra cui forse la prima appartiene alla tradizione popolare lombarda). “E l’an taglià i suoi biondi capelli, / la si veste da militar, / lé la monta sul cavallo, / verso il Piave se ne va.”
Questo canto ha un fondo di verità e ad essa richiama.
Anna Nin Tedeschi (1900 – 1933) era una bella ragazza di Anzola d’Ossola. La sua biografia è raccontata da Silvio Tedeschi nel libro “Autobiografia di un imprenditore” (2013). Nel libro Maddalena Talamoni, madre della Nin, ricorda: “Fra tutte le mie figlie era la più spiritosa e un po’ matta. Da giovane l’avevamo mandata a imparare il mestiere di sarta ed era diventata così brava che aveva iniziato quasi subito a lavorare in proprio. La Nin era una bella ragazza e aveva già trovato un fidanzato alto e bello, sembrava una cosa seria. Purtroppo arrivò la guerra e il suo ragazzo, Dorindo Borghini classe 1894, ricevette la cartolina di precetto per partire immediatamente per il fronte a combattere contro gli Austriaci. Mia figlia disperata, temendo di non vederlo più, perché la guerra poteva portare queste disgrazie, fece di tutto per rivederlo anche con l’aiuto di mio marito che in quel periodo era diventato sindaco di Anzola. Ma non fu possibile aiutarla e vedendola sempre preoccupata e pensierosa non sapevamo proprio cosa fare.”
La Nin sapeva cosa fare. Di nascosto aveva comprato della stoffa grigioverde uguale a quella usata per i militari e si era confezionata nel suo laboratorio una divisa maschile completa, procurandosi anche scarpe, cappello e fasce. Sempre di nascosto era partita dalla stazione di Cuzzago per Milano con la valigia contenente gli abiti militari. Arrivata a Milano, si era cambiata e con grande fatica era partita per il fronte. Come militare sembrava un po’ strana a tutti e le chiedevano dove fosse diretta, ma lei dava sempre risposte appropriate fino a che, arrivata alla frontiera, era passata inosservata e aveva iniziato la ricerca del suo amore, pronta ad affrontare qualsiasi pericolo. Un ufficiale di ronda aveva notato questo “soldatino” e gli aveva chiesto i documenti. Scoperta fu inizialmente considerata una spia, ma essendo la figlia di un sindaco e chiarita la bravata, fu rispedita a casa. Immagino il drammatico rientro della “ragazza guerriera” in una comunità chiusa, per una fuga d’amore in tempo bellico.
Finita la guerra, Dorindo tornò a casa sano e salvo. Si sposarono e nel 1925 nacque il figlio Romano, che divenne poi bravo meccanico e dirigente d’azienda.
La Nin nel 1930 si ammalò di TBC e fu portata alla Frua in Val Formazza affinché l’aria fine potesse aiutarla. Morì nel 1933. Poco dopo anche il marito.
Questa è la storia. La memoria popolare e la tradizione canora trasfigurarono in un’aurea di eroismo il gesto della Nin (quando scappò di casa aveva 15 anni, ma sembrava più grande come accade spesso in montagna quando la vita accelera i tempi). “Suo papà l’era a la porta / e sua mamma l’era al balcon / per veder la sua figlia / che ritorna col battaglion. / «Verginella ero prima, / verginella sono ancor / ed ho fatto sett’anni a la guerra / sempre al fianco del mio primo amor». Non conosco immagini della Nin. La foto accanto è relativa ai lavori di costruzione della Linea Cadorna sui monti del Verbano.
Resistenza
5. La prima ministra della Repubblica
Gisella Floreanini (1906 – 1993) è stata la prima donna “ministra” in un governo dell’Italia libera dal fascismo, quando ancora alle donne non era riconosciuto diritto di voto.
Fu quello, durato quaranta giorni, della Repubblica dell’Ossola.
Dopo quell’esperienza formidabile scrisse: “La Repubblica dell’Ossola è la sola che abbia immesso una donna nella Giunta provvisoria di governo: a me sembra sia un fatto di tale novità e originalità in Italia che deve essere approfondito nel suo significato perché alcuni governi ora mi chiedono la ragione perché sia avvenuto solo nell’Ossola, perché in nessun’altra della Zone libere? E ce ne furono di straordinarie, in cui militari ed i politici costruirono governi nuovi, popolari; ma le donne non ci furono in nessuna, anche se le donne erano una componente essenziale della Resistenza. Fu questa già una prova di una maturità democratica della Repubblica ossolana; essa sta ad indicare sia il peso che ha avuto il lavoro che le donne svolgevano, sia la maturità politica degli uomini della Giunta e proprio perché i Commissari al governo dell’Ossola portavano avanti un’Italia che pochi pensavano che così sarebbe stata. È l’Italia anche delle donne.
È l’Italia del voto alle donne, del riconoscimento dei loro diritti politici, sociali, civili. […]. Una donna che non fosse una regina, una principessa, una badessa, è diventata dirigente di governo!” (Una donna nel governo dell’Ossola, 1959).
La sua storia è straordinaria. Rimasta orfana a quattro anni e con un padre socialista che subì le angherie fasciste, nel 1934 entrò in contatto con “Giustizia e Libertà”.
Nel 1942 si iscrisse al Partito Comunista. Durante i giorni liberi della Repubblica assunse l’incarico di Commissaria di governo dando vita ai “Gruppi di difesa della donna” che nelle valli dell’Ossola realizzarono nuove forme di solidarietà sociale.
Scarseggiavano generi di prima necessità, mancava un’organizzazione razionale per la distribuzione degli aiuti ed erano in vigore privilegi istituiti dai podestà fascisti.
Riuscì a coordinare la gestione decentrata dell’assistenza da parte dei 32 comuni, ad ottenere il supporto della Croce Rossa elvetica e del governo svizzero.
Alla caduta della Repubblica, unico membro della GPG, non andò in Svizzera ma in Valsesia con i garibaldini.
Nel febbraio del 1945 venne nominata Presidente del CLN di Novara: un ruolo unico per una donna che la portò a partecipare alle trattative per la resa dei nazifascisti. Medaglia d’Oro della Resistenza, fu eletta alla Camera per due legislature (tra il 1948 e il 1958).
Promosse leggi a favore delle mondariso per la tutela della maternità e dell’infanzia, per la parità salariale, per la tutela della prole nata fuori del matrimonio, contro lo sfruttamento della prostituzione, contro il licenziamento delle donne coniugate (quelle che avrebbero fatto figli e sarebbero state a casa in maternità). Sentimentalmente visse vari tribolizi, ma penso siano stati compensati da una grande forza etica e morale.
Alpinismo
6. La ‘signora’ dell’alpinimo ossolano
Franca Zani fu la “signora” dell’alpinismo ossolano. Protagonista assoluta, negli anni ’50 e ’60 del Novecento, dell’alpinismo femminile italiano, il suo nome è scritto nei libri di storia alpinistica legato a grandi realizzazioni. Fu la prima donna a percorrere tutte le sei ascensioni classiche sul Monte Rosa: cresta Signal, via dei Francesi, Canalone Marinelli, via Brioschi alla Nordend, cresta di S. Caterina e, sul versante svizzero, il crestone Rey. Questo in anni in cui le donne alpiniste erano mosche bianche in un ambiente in cui l’alpinismo era considerato prerogativa maschile. La sua salita più grande fu, nel 1971 con l’amico e guida alpina Dino Vanini di Baceno, la prima femminile della “via dei Francesi” alla Punta Gnifetti sul Monte Rosa, il più lungo e grandioso itinerario alpinistico sulle Alpi.
Si tratta di un itinerario, glaciale nella parte bassa e di misto nel tratto superiore, che supera un dislivello di 2400 m dal ghiacciaio del Monte Rosa con pendii fino a 60°. La salita di Franca Zani ebbe vasta eco sulla stampa italiana e la consacrò nel gotha dell’alpinismo rosa. Il suo amore per la parete est del Monte Rosa, l’unica di dimensioni himalayane sulle Alpi, ebbe inizio nel 1954 quando salì il Canalone Marinelli con la guida Giuseppe Oberto.
Franca Zani visse intensamente quel periodo straordinario degli anni ’50 quando, con il gruppo degli alpinisti di Domodossola (“Sipe” Borsetti, Dino del Custode, Stefano Zani e altri), avvenne l’affermazione dell’arrampicata
con la scoperta delle pareti di roccia in Devero. Dalla formazione alpinistica sui monti dell’Ossola agli impegnativi itinerari sui Quattromila del Vallese, il passo fu breve ed ebbe la straordinaria opportunità di vivere da protagonista il periodo in cui l’alpinismo ossolano divenne maturo e indipendente, acquisendo la capacità di progettare e realizzare salite di altissimo livello.
La dimensione etica di un alpinismo fatto di ideali e passione accompagnò tutta la sua carriera.
Nel 1971 a Franca Zani fu chiesto quale fosse la “via ideale” sui nostri monti. Ecco la risposta: “Penso che la ‘via ideale’ non esista. Se ci fosse, forse dovrebbe possedere l’abbagliante splendore del Rosa, la stupenda solidità delle rocce rosse di Devero, la solitudine di certe cime del Veglia, fuori dal mondo. Credo piuttosto che la “via ideale” sia quella che stiamo ancora sognando.” Quasi trent’anni dopo, raccontandomi la sua esperienza di vita in montagna, mi disse: “Abbiamo raggiunto un’età pressoché veneranda e tuttavia continuiamo come in passato ad attendere il fine settimana ed il bel tempo per ripetere i vecchi gesti: mettere lo zaino sulle spalle, muovere i primi passi su di un sentiero che sale. Scopriamo e riscopriamo luoghi delle nostre valli di una struggente bellezza, boschi, alpeggi, valichi che ci trasmettono tutto quello che forse abbiamo sempre cercato: solitudine, silenzio, sicurezza. Non si finisce mai di andare in montagna se si possiede veramente la vocazione. In fondo l’alpinismo è l’esercizio di una vocazione. Mi sembra di aver poco da aggiungere. E forse ci sono montagne anche di là.” È morta a 73 anni e, fino alla fine, è andata in montagna con il marito Dario, anche lui buon alpinista.
Donne di montagna
7. La vegia dul balm
Chiudo questo numero di Lepontica con una storia d’amore “estremo”. È una “storia vera”, scabra ed essenziale come le rocce dei nostri monti. La vicenda si svolge in Fajera, un luogo tanto selvaggio che ha pochi eguali anche in Val Grande. Fajera è un ampio fornale, ripidissimo e cosparso da sassaie che emergono da un bosco stentato, nel vallone di Nibbio. Anche gli escursionisti (sono pochi, ma qualcuno c’è) che risalgono l’orrido ed angusto burrone per raggiungere le Bocchetta di Valfredda, tra il Proman e il Lesìno, non si accorgono dei balmi di Fajera perché sono defilati, distanti solo un centinaio di metri dal corso asciutto del torrente, eppure invisibili. Lì, fra i sassi, i frassini e pochi castagni smilzi, è stata vissuta una storia d’amore lunga una vita.
Siamo agli inizi del Novecento. Lei si chiama Angela Borghini di Anzola ed è una donna bellissima, la ragazza più bella del paese. Lui si chiama Michele, è già sposato, ha figli e fa il boscaiolo. La leggenda non dice come, quando e perché, ma i due si innamorano.
La comunità locale non accetta questo amore illegittimo. I due abbandonano la società degli uomini e vanno a vivere in Fajera: sotto un balmo, con un gregge di capre e nient’altro.
Per tutta la vita. Quando il Michele muore, l’Angela lo trasporta per un tratto nel gerlo del fieno, poi sfinita lo lascia e scende a Cuzzago a chiedere aiuto. Al primo che incontra si rivolge con parole secche: L’è mort Miché. A gni su tòl, o al sutèri beli là? (È morto Michele. Venite su a prenderlo o lo sotterro là?).
Alcuni del paese salgono a raccogliere il cadavere e, avvolto in un drappo di tela appeso ad una stanga, lo portano a seppellire. L’Angela, rimasta sola, torna alla sua balma tra i monti a condurre, per altri lunghi anni, una vita di solitudine. Un inverno, si racconta, una valanga seppellì il balm e l’Angela rimase giorni sotto la neve; un’altra volta le rubarono le capre. Ormai vecchia e ingobbita dalle fatiche, agli inizi degli anni ‘30 scenderà a morire in ospedale.
Beatrice Canestro Chiovenda (1901 – 2002) era figlia di Giuseppe Chiovenda, giurista e fondatore della scuola di procedura civile, Rettore dell’Università di Roma. Nel 1922 fu la prima donna a salire il canalone Marinelli sulla parete est del Monte Rosa con le guide Tofi ed Erminio Jacchini. Fu storica dell’arte di altissima statura, amica di Maria Bellonci e giurata al Premio Strega (riconobbe nella figura sull’ambone dell’isola di San Giulio sul Lago d’Orta la figura di Guglielmo da Volpiano). La conobbi oltre quarant’anni fa nella sua casa di Premosello Chiovenda (il secondo toponimo è un onore al padre), che fu un cenacolo di studiosi. Fu lei, per prima, a raccontarmi della Vegia dul Balm. Scrisse: “La storia è bella perché esprime un amore che dura anche durante un lungo numero di anni, anche nella vita dell’alpe, lontano da qualunque contatto umano. Questa sarebbe la favola, che sarebbe presto leggenda. … E qui viene la realtà, l’incredibile sacrificio d’amore continuo, giornaliero, l’eroismo di tutta una vita che la leggenda non racconta.” Dell’Angela Borghini di Anzola scrisse anche Tito Chiovenda, diplomatico antifascista, poeta e alpinista (era lo zio di Beatrice): “…Scende ancora, di notte, più raramente che può, a vendere i suoi formaggelli e a rifornire il sacchetto di farina gialla; di primavera vede arrivare su gli incettatori a comperarle i capretti.
Per mesi e mesi non vede altre facce umane. … E così a quella età, estate e inverno, piova o nevichi o il sole arroventi quelle pareti di nera diorite, sola, curva, muta, vestendo i pantaloni del defunto compagno, tutto un reticolato di toppe, va dal suo focolare alla sua tafferiera, oppure esce a grattare due patate, a spiccare due gambe d’indivia dal suo orticello: perché ha un orto così vasto che le pertiche messeci attorno a difesa delle capre lo ombreggiano tutto”.
La notorietà della vicenda è dovuta ad un articolo di Giovanni Cenzato, giornalista milanese che trascorreva le vacanze estive ad Anzola, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 2 gennaio 1932. La Vegia dul balm fu fotografata da Isolo Rasi nel 1924 durante un’ascensione al Lesino (sono le due uniche immagine conosciute).