Paolo Crosa Lenz Lepontica/7 Aprile 2021
Sommario
1. Vengono, vanno
2. Parole, parole, parole
3. L’ultima miniera delle Alpi
4. Chierichetti d’alpeggio
5. Leggende delle Alpi
6. Michele Pala, Bergführer del Monte Rosa
7. La bellezza di Devero
Natura
1. Vengono vanno
Anche gli animali, come gli uomini, vanno e vengono. Le migrazioni sono portatrici di vita. Chi ne ha paura è perché non ha il coraggio di guardare oltre il cortile di casa. Per molti uccelli migratori la casa è il mondo. In un eterno errare da un luogo all’altro.
Migrare per vivere. Aprile e maggio sono i mesi in cui i naturalisti alzano gli occhi al cielo. I primi ad arrivare sono gli uccelli che svernano nel Mediterraneo (il fringuello, il codirosso spazzacamino). I loro canti accompagnano le nostre escursioni in montagna.
Poi arrivano quelli che svernano nelle regioni subsahariane. La strada è più lunga e di mezzo ci sono il deserto e il mare. Le coste del Baltico sono ancora lontane. In questo volo, la Val d’Ossola è un corridoio ecologico molto importante. Gli uccelli migratori si fermano sulle rive del Lago Maggiore e lungo il fiume Toce per nutrirsi e riposare prima del grande balzo oltre le Alpi.
La riserva naturale del canneto di Fondotoce (Verbania) è un’area umida formata quasi esclusivamente da cannuccia di palude. Qui gli ornitologi hanno piazzato una passerella galleggiante che è la base per una rete di cattura degli uccelli migratori.
Il centro di inanellamento permette così di studiare le migrazioni. In caso di ricattura, l’anello permette di avere importanti informazioni scientifiche. Un esempio: il culbianco è un passeriforme che pesa venti grammi; la sua rotta va dal Sahara al Canada. Riposa sul Lago Maggiore prima di imboccare il corridoio della Val d’Ossola. Sugli stessi cieli convivono il piccolo e il grande: la primavera è la stagione dei voli nuziali dell’aquila che non tollera intrusi.
Una competizione per la vita. Mi racconta l’amico naturalista Radames Bionda: “L’istinto di difesa del territorio è talmente forte da spingere una femmina in cova ad abbandonare le uova per scacciare l’intruso. Come per tutti gli uccelli rapaci nidificanti, il periodo della cova e dell’allevamento dei giovani è molto delicato.
Le specie che utilizzano le pareti rocciose, come l’aquila, possono essere disturbate in modo involontario da elicotteri, alianti, parapendii e arrampicatori oppure, in modo volontario, da fotografi privi di scrupoli”.
Alla fine di gennaio i carabinieri forestali del Parco Nazionale Val Grande hanno avvistato nei cieli dell’Ossola un gipeto in interazione aerea con un’aquila. Il gipeto è il più grande avvoltoio che vola nei cieli d’Europa. Si era estinto e sono in corso progetti di reintroduzione. Il gipeto avvistato è Fredueli, nato in un allevamento spagnolo il 14 marzo 2018 e liberato nel giugno dello stesso anno nel Canton Obvaldo, in Svizzera, assieme alla sorella.
Era già stato avvistato nel 2020 e identificato grazie alla presenza di alcune penne chiare, appositamente decolorate per facilitarne il riconoscimento. Al fine di monitorare il rapace, prima del suo rilascio, oltre alla decolorazione di alcune timoniere e remiganti, si provvide a dotare l’animale di un trasmettitore GPS.
Alziamo gli occhi al cielo nei nostri cammini sui monti, solo in questa stagione potremo vedere specie che poi spariscono perché vanno altrove: cormorani, falchi di palude, nibbi reali, albanelle, falchi pescatore e gabbiani. Anche loro, come gli uomini, vengono e vanno.
Natura
2. Parole, parole, parole
Durante una scorribanda d’alpe, davanti ad una bottiglia vuota e accanto alla griglia fumante, ho discusso sulle parole della natura.
Tutto partì da un recente rapporto di monitoraggio del Life Wolf Alps che dava nel Verbano Cusio Ossola la presenza di tredici lupi (la “bestiaccia”). Nella mia terra, oltre a loro, ci sono 160.000 abitanti, forse duemila mucche e un po’ di pecore e capre per lo più allo stato brado.
Scendendo a valle, mi sono ricordato di un bell’editoriale dell’amico Gianni Boscolo (“Piemonte Parchi” 1999) che raccontava dello “zoo linguistico” nel quale l’uomo usa le parole per rappresentare il peggio di sé.
Nel Medioevo, i libri che parlavano di animali si chiamavano “Bestiari”.
Poi la società mediatica ha fatto peggio. Il picchiatore che difende vip e ricchi si chiama “gorilla”; l’”ape” è un triciclo a ruote; la “pantera” e la “gazzella” sono auto per poliziotti da cui non puoi scappare; lo “sciacallo” entra nelle case dei terremotati.
Cosa fanno “cimici”, “gru” e pescecani”? E che dire della “piovra”? Quella che mi fa più tenerezza è la “lucciola”: nelle nostre campagne non lampeggiano più con l’addome, ma ha sguardi tristi di vite sofferte.
Concludeva Gianni Boscolo: “La confusione linguistica non è certo la cosa peggiore che la nostra specie dominante infligge alle altre. Su una cosa però, se potessero, sicuramente gli animali si adombrerebbero: l’uso dell’aggettivo bestiale, quando una cosa ci suscita un orrore infinito.
I campi di sterminio, i lager, le pulizie etniche (sotto ogni latitudine), i feroci conflitti, lo sfruttamento dei bambini… l’elenco delle cose che etichettiamo come bestiali è lunghissimo. Ma è errata. Non bestiali bensì umane. Tragiche, atroci, orripilanti. Ma umane, esclusivamente umane”.
Mi rammento di una notizia di cronaca nera dove un capomafia era soprannominato “o’ animale”.
Oltre alla lucciola, quello che mi fa più tenerezza è il lupo, abituato a lunghi digiuni e a fame prolungata. Tanto quanti umani, giovani e vecchi. Quando nacquero i miei figli, mi ripromisi che mai avrebbero dovuto patire una “fame da lupi”.
Nell’immagine, alcune gru nei prati presso lo svincolo di Villadossola
Storia
3. L’ultima miniera delle alpi
Miniera d’oro di Pestarena (Macugnaga), livello 65, 13 febbraio 1961. L’esplosione che uccide quattro minatori (un sorvegliante e tre operai, due hanno poco più di vent’anni, due sono anziani, tre sono sardi, uno è bergamasco) è occasione da parte dell’azienda per la chiusura definitiva dell’impianto.
L’evento rappresenta la fine di un’epoca e la conclusione di un ciclo storico di utilizzo delle risorse delle Alpi. L’esplosione scatta anche una fotografia dell’Italia del tempo, un paese che sta vivendo gli anni frementi del boom economico e la montagna è scossa da trasformazioni sociali.
La concentrazione di pirite aurifera in Valle Anzasca è talmente estesa che giustifica l’affermazione per cui “L’oro italiano è oro ossolano”.
L’attività estrattiva sulle Alpi è documentata a partire dal XIII-XIV secolo quando gli homini argentarii usavano il mercurio (“argento vivo”) per separare l’oro dalle piriti.
L’arte mineraria si sviluppò poi in modo sistematico tra XVIII e XIX secolo grazie a straordinarie figure di imprenditori coraggiosi e senza scrupoli. Fu con l’arrivo dei capitali stranieri, soprattutto inglesi, che l’attività assunse dimensioni industriali.
Nel 1884 tutte le miniere aurifere ossolane vennero acquistate dalla ditta inglese The Pestarena Gold Mining che le lavorò per circa un ventennio; il complesso era ritenuto il più vasto d’Europa. L’esodo dei capitali inglesi e, dopo un periodo di proprietà privata italiana (la Pietro Maria Ceretti), la fascistizzazione dell’economia dilatarono e forzarono a dismisura il peso delle miniere aurifere alpine.
L’intensità dell’attività mineraria a Pestarena trasformò profondamente la montagna e il villaggio (nelle miniere lavoravano 800 persone).
La silicosi uccideva giovani i minatori e la Valle Anzasca divenne una “valle di vedove”.
Negli anni ’60 del Novecento le Alpi iniziarono a perdere definitivamente il loro uso sociale produttivo (l’agricoltura e l’allevamento, le miniere, la someggiatura) per assumerne uno completamente nuovo: quello ricreativo del turismo.
Le miniere vennero considerati “rami secchi” da potare; gli stabilimenti minerari alpini erano residui del passato da smantellare. Mai, nella storia della presenza umana in montagna, un cambiamento fu così radicale, estremo, irreversibile.
Pochi ne furono consapevoli (e qualcuno neanche oggi!). La chiusura dell’ultima miniera d’oro sulle Alpi passò tutto sommato inosservata nell’opinione pubblica di un’Italia concentrata sulle grandi industrie di pianura e indifferente ai problemi della montagna. Sta a noi conservarne preziosa la memoria.
Vita in montagna
4. Chierichetti d’alpeggio
Camminando sui monti con vecchi amici, la parola capitò sull’esperienza giovanile del prestare servizio in chiesa come chierichetti. Scoprimmo che l’avevamo fatto tutti.
Le mamme ci mandavano con sguardi severi a “servire messa” la domenica. Nessuno poteva dire di no. In estate, dalla fine della scuola alla Madonna di Settembre (l’otto, quando scendevano le mucche dall’alpe) tutti eravamo in montagna. Le messe della domenica non erano gradite, perché le mance erano poco o niente.
Erano ambiti funerali, battesimi e matrimoni: celebrazioni con mancia sicura. In estate i funerali erano appannaggio dei pochi chierichetti che la passavano in paese.
I matrimoni (i più redditizi) avvenivano per lo più al Santuario del Boden (edificato per un miracolo avvenuto nel XVI secolo e uno dei luoghi più frequentati dalla devozione popolare nell’alto Piemonte con la Madonna di Re e quella di Cannobio).
Scendevamo dagli alpi, con i pantaloni corti puliti e la camicia bianca con le maniche lunghe.
Rispetto ai giochi e ai lavori, era un diversivo ben retribuito e un’occasione per vedere gente ben vestita.
Vigeva un complesso e non scritto sistema di turnazione per il servizio ai matrimoni: ogni alpe ne aveva diritto ad uno. Ci furono anni di diatribe feroci: c’erano alpi piccoli con pochi chierichetti ed altri grandi con tanti.
C’era chi sosteneva la turnazione per alpe (quelli piccoli) ed altri che esigevano la turnazione per numero di servitori. Scoprii dopo che era l’antica contesa del voto per testa o per stato, alla base della Rivoluzione Francese.
Non ricordo come finì, ma un anno ci furono botte da orbi, tanto che intervennero mamme e parroco, sacrista e pie donne.
Dopo la terza media tutto finì.
Tutti i miei coscritti andarono a lavorare ed ebbero il borsellino pieno. Furono la fabbrica e la carriola a farci mollare quelle sagrestie buie dove non c’era neanche l’ombra di una ragazza.
Folklore
5. Leggende delle Alpi
Questa primavera è stato riedito, in una nuova veste editoriale, il mio libro “Leggende delle Alpi – Il mondo fantastico in Val d’Ossola” (Grossi, Domodossola). La prima edizione è del 2012 e questa è la terza ristampa.
Ne parlo qui solo perché mi è costato oltre trent’anni di ricerche e di peregrinazioni sui monti. Il libro (400 pp) vuole essere prima di tutto un atto d’amore verso una terra di alte montagne e una dichiarazione di rispetto verso la civiltà alpina. Presenta duecento leggende e fiabe popolari della Val d’Ossola e realizza per la prima volta un catalogo del mondo fantastico del montanaro ossolano.
Niente nel libro è inventato. È la cultura tradizionale degli uomini delle Alpi che parla con la voce dei narratori.
Un elemento comune alle fiabe popolari è il “senso del meraviglioso”, lo stupore continuo per un mondo diverso che ha continui scambi con il nostro mondo reale.
Questo senso del meraviglioso, proprio della cultura contadina (la “magia” sempre nuova di un seme che diventa frutto), appare chiaramente nelle fiabe sui folletti e gli “uomini selvatici” dove la natura misteriosa dei boschi e delle montagne si anima e si personifica per entrare in contatto di incontro e di scambio con i protagonisti reali di questo ambiente, i contadini, i pastori e i boscaioli.
Anche la storia millenaria di questi monti si esprime in strane “leggende documentate” che ci portano l’eco, attraverso il filtro della memoria, di eventi realmente accaduti in tempi antichi.
Questo libro viene pubblicato in extremis. Tra dieci o vent’anni non sarebbe più possibile (ed oggi lo è grazie a ricerche lontane!), perché stanno scomparendo (sono scomparsi?) i portatori di questa cultura, i narratori delle fiabe alpine che le conoscevano per trasmissione generazionale da secoli e le vivevano come dimensione di lavoro e di frequentazione d’ambiente. Un’ampia introduzione antropologica ricostruisce oltre un secolo di studi folklorici in Val d’Ossola e illustra criteri di catalogazione e scelta di un’ampia materia organizzata in undici sezioni tipologiche. La copertina della prima edizione presentava il disegno scanzonato di un twergi (il nano saggio dei boschi) che riposa sotto un fungo. La seconda edizione presenta una stampa conservata in una baita d’alpeggio e fortunosamente ritrovata. È un’immagine straordinaria: guardate la vecchia che racconta e lo stupore dei bambini che imparano la vita a bocca aperta. A lato, la madre guarda, sorridente e protettiva.
Alpinismo
6. Michele Pala, Bergführer del Monte Rosa
Lo scorso febbraio si è spento a Bietsch nel Canton Vallese Michele Pala, guida alpina di Macugnaga; aveva 89 anni.
Fu una grande guida, protagonista dell’alpinismo sul Monte Rosa negli anni ’50 e ’60 del Novecento.
Il Monte Rosa è la seconda montagna più alta d’Europa (4635 m) e il versante di Macugnaga presenta l’unica parete di dimensioni himalayane sulle Alpi: 2500m di rocce e ghiacciai pensili. Amava definirsi Bergführer, alla tedesca (quasi una reminiscenza walser).
Scrisse pagine memorabili, fra cui tre prestigiose prime invernali: Dufour, Santa Caterina e Canalone della Solitudine. Protagonisti di quella grande stagione furono una generazione di guide alpine di cui Michele Pala era rimasto l’ultimo in vita.
L’amico Walter Bettoni, caporedattore de “Il Rosa” e fine cronista a cui non scappa niente, mi aiuta a ricostruire la statura alpinistica di Michele Pala.
Nel febbraio 1965 è impegnato sulla Dufour con Luciano Bettineschi, Felice Iacchini e Lino Pironi. È lui che, in collegamento con Macugnaga, comunica: “Stiamo bene. Proseguiamo un po’ lentamente per via del vento e della neve molle…” e poi “Abbiamo sudato per passare la bergschrunde… proseguiamo veloci verso le rocce”.
E ancora, dopo che lassù si è scatenata una violenta bufera: “Qui c’è l’inferno. Dobbiamo salire per evitare congelamenti…”.
Bivaccano in parete a 4500 metri con una temperatura di -40° sospesi nel vuoto.
Alle 11.45 del 6 febbraio il silenzio viene rotto da Michele: “Qui radio Dufour, siamo sulla vetta! Se ci sentite rispondete”.
Due anni dopo, febbraio 1967, è la volta dell’invernale della Santa Caterina, quattro dei protagonisti sono ancora loro; Michele Pala, Luciano Bettineschi, Felice Iacchini e Lino Pironi con l’aggiunta di Carlo Iacchini.
E sempre a febbraio, anno 1971, ancora con Lino Pironi e Carlo Iacchini, Michele Pala firma anche l’invernale del Canalone della Solitudine, con tre bivacchi a temperature impossibili.
Fra le altre salite ricordo quella alla Dufour nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, con don Sisto Bighiani e altre guide di Macugnaga. Un paradosso: la vetta della Dufour si trova nel territorio del comune di Zermatt, per cui la cerimonia alpinistica per i cento anni dell’Italia unita, si tenne in Svizzera.
Libri
7. La bellezza di Devero
L’alpe Devero, come il vicino alpe Veglia (nel 1978 il primo parco naturale della Regione Piemonte), è un parco naturale da sempre.
Una grande conca verde circondata da alte montagne e isolato dal resto del mondo da una profonda forra.
Solo alla fine del Novecento le leggi degli uomini hanno stabilito vincoli di protezione su pascoli, boschi e montagne. Quello di Devero è un ambiente alpino dolce e austero: dolce nelle praterie ondulate d’alta quota e austero nella severità delle grandi montagne e nelle immense giogaie battute dal vento. È un ambiente comunque modellato dall’uomo, risultato del lavoro di infinite generazioni di montanari.
Sui terrazzi morenici, caldi e soleggiati, si stendono i pascoli alti dove nell’estate piena pascolano libere le mandrie di bovini e da secoli si produce il Bettelmat (la fontina delle Alpi Lepontine).
Devero, l’alpe dei fiori per le splendide fioriture estive, offre oggi tante occasioni di avventure escursionistiche in un ambiente naturale tra i più belli delle Alpi.
Siamo nel cuore di quel “Quadrilatero lepontino” (Veglia, Devero, Formazza e Binntal) che costituisce il terreno dove, nell’Ottocento, correva l’”high level tour” (la traversata delle Lepontine, dal Sempione a Formazza).
Queste montagne raccontano la tormentata storia geologica delle Alpi: la morfologia delle valli e gli strati rocciosi delle montagne sono un libro a cielo aperto da leggere camminando con lo sguardo vigile.
Sui valichi e sulle bocchette alte sono transitati i mercanti di ogni tempo portando merci e idee tra l’Europa e il Mediterraneo (l’Albrunpass fu frequentato fin dall’Età del Bronzo).
Pascoli e alpeggi raccontano di come l’uomo abbia colonizzato le montagne: un’avventura epica da leggere ad ogni curva di sentiero.
Poi, in alto, le sfide per l’uomo di oggi, l’avventura di scalare queste montagne di roccia compatta. Sulle vette, i grandi spazi e la gioia di vedere il mondo dall’alto. L’amico guida alpina Alberto Paleari ha definito Devero “l’ottava meraviglia del mondo”.
Oggi questa terra è soggetta ad un grande progetto di infrastrutturazione pesante (“ricoveri” turistici sulle vette e impianti di risalita per andare in montagna “seduti”). Si chiama “Avvicinare le montagne”, dove avvicinare sta per addomesticare. Ricordo Mario Rigoni Stern: “Il turismo ha portato benessere in molte zone, ma anche la città in montagna, mondi che sono invece in conflitto e la montagna perde”.
Contro questo progetto si sono schierate tutte le associazioni ambientaliste e il CAI. Sono state raccolte firme di opposizione (la “carica dei centomila”).
Devero vanta anche una sua letteratura. Oltre a un cospicuo numero di testi storici e guide alpinistiche ed escursionistiche, ci sono anche opere di narrativa. Ricordo “La chiesetta rossa di Goglio” di Angelo “del Devero” e “Mi ricordo la Rossa” di Erminio Ferrari (Tararà, 2009).
Recentemente è uscita la seconda edizione (la prima è del 2003) de “Le fragole dell’Alpe Devero” di Lorenzo Revojera, ingegnere milanese, alpinista e uomo del CAI. È un romanzo di formazione in cui ragazzi diventano uomini scalando i monti di Devero.