Paolo Crosa Lenz Lepontica/9 Giugno 2021
Sommario
1. La farfalla dei ghiacciai
2. Il fieno di maggio
3. Corte Buè: luogo della memoria
4. “Vicende d’Anzasca – Il sale della fatica”
5. Carlo Alessandro Pisoni (1963 – 2021)
6. L’albergo “Nigritella” di Campello Monti
7. Franco Mazzuchelli (1931 – 2021)
Natura
1. La farfalla dei ghiacciai
La farfalla più rara d’Europa si trova sui monti della Val d’Ossola. Difficilissimo vederla, ma esiste.
È una specie unica al mondo e si è specializzata in migliaia di anni a vivere sulle alte montagne. Si chiama Erebia christi: è la “farfalla dei ghiacciai”.
Con questo nome, piuttosto carismatico, si fa riferimento al fatto che si tratta una “specie relitta” delle ultime glaciazioni, risalenti a 10.000 anni fa.
Questa farfalla alpina è estremamente rara e localizzata, in tutto il mondo vive esclusivamente tra Piemonte e Svizzera (Antrona, Veglia, Devero, Agaro, Lagginthal). La specie è stata trovata in Italia solamente nel 1972.
Mi racconta il naturalista Andrea Battisti, che sta dedicando la vita a questi studi: “Le farfalle del genere Erebia sono farfalle tipiche di ambienti montuosi; si presentano di colore scuro, con macchie e ocelli arancioni e neri sulle ali. La colorazione scura permette loro di scaldarsi al sole anche con temperature relativamente basse, situazione comune in montagna. I bruchi di questi lepidotteri si nutrono di erbe alpine del genere Festuca o affini, e per alcune specie possono passare due inverni prima che il bruco diventi farfalla. Ed è proprio grazie alla morfologia dei rilievi montuosi che questo gruppo di farfalle ha potuto differenziarsi e manifestare specie uniche in tutta Europa, alcuni rilievi montuosi, infatti, possono essere visti come isole per via della mancanza di continuazione di habitat con altri rilievi. Con il ritirarsi dei ghiacciai, migliaia di anni addietro, alcune di queste Erebie sono rimaste isolate, e diverse specie risultano oggi localizzate e circoscritte, come Erebia flavofasciata, sempre in Valle d’Ossola, o Erebia calcaria, sulle Dolomiti, ma Erebia christi oltre ad essere una specie con una ristretta distribuzione è anche difficile da trovare e osservare, per questo è considerate la specie più rara d’Europa”.
Erebia christi è una specie protetta, considerata “Endangered” (pericolo di estinzione) dalla lista rossa IUCN delle farfalle d’Italia.
I pericoli che gravano su questa farfalla ricadono in parte nella raccolta illegale, ma anche alla perdita di habitat in quanto la “farfalla dei ghiacciai” è estremamente specializzata per l’habitat di parete rocciosa. Anche per questo è difficile da avvistare, solo gli alpinisti la possono incontrare.
I metodi di cattura per lo studio sono singolari: entomologi che scendono le pareti in corda doppia; in una mano il freno di sicurezza, nell’altra il retino.
Roba da alpinisti che fanno ricerca scientifica.
Le parole della montagna
2. Il fieno di maggio
Nei fondovalle di montagna, là dove le piane alluvionali si insinuano come fiordi tra valli alpine impervie, il mese di maggio è quello del primo taglio del fieno. Il fèn (maggengo) è il primo, poi ci sarò l’argorda (arigorda, il taglio di luglio) e la tarsòla (il taglio agostano). I vecchi dicono che, in annate favorevoli di buon equilibrio tra pioggia e sole, nella bassa Val d’Ossola facessero anche la quartarola (un’erba tagliata in settembre e alta 30-40 cm). Un regalo del clima per le valli di montagna.
Quest’anno il fieno non è buono nella mia valle. È un fieno raiar (rado), erbe alte ma distanti l’una dall’altra, in mezzo le erbe buone sono state bruciate da gelate primaverili. Lavori tanto e raccogli poco. Altro che quartarola!
Ricordo quando la mia mamma mi portava giù dall’alpe al piano a fare fieno in campagna: il lavoro erano parole impresse nella mente di un bam bino. Taiàa: segare con la ranza (la falce fienaia). Spantigàa: spargere l’erba tagliata con il manico del rastrello. Vultàa: girare l’erba con il rastrello per farla seccare prima. Fare l’oigia: ammucchiare il fieno in lunghe strisce. Mugiàa: accumulare il fieno secco dell’oigia in grandi mucchi affinché eventuali piogge non lo danneggiassero.
Poi i mucchi di fieno venivano caricati sui carri trai- nati dagli asini e portati nei fienili del paese.
Era la festa dei bambini, in alto sul carro colmo di fieno, ad accarezzare i rami dei noci.
A tirare il carro era l’asino, docile e prezioso che alcune famiglie povere tenevano in comune.
Ricordo gli asini della mia infanzia e la tecnologia misteriosa del carro che portava fieno, uva, patate e quanto la terra ci dava. Nelle alte valli di montagna era tutta un’altra storia. Da raccontare un domani.
Era un lavoro di tutti, un lavoro per tutti.
Non era bello, era il dovere di giovani e vecchi perché lavorare la terra costa fatica. I nostri giovani non conoscono quanto sia faticoso tirare un rastrello, ma sono consapevole di quante altre loro fatiche possono contribuire a rendere il mondo migliore.
Montagna
3. Corte Buè: luogo della memoria
Corte Buè è una grande corte in Val Grande (oggi Parco Nazionale), sul versante nord-orientale dei Corni di Nibbio. I rustici e i prati sono distribuiti su un pronunciato costolone di fronte ai corti di Velina a ricevere il primo sole del mattino. Qui non c’è un fazzoletto piano neanche a pagarlo, tutto è in piedi, una vita in salita.
Corte Buè è un luogo di confine. A sud di Buè, una estesa fascia di prati, pa- scoli, boschi governati, corti un tem- po abitati per lunghi mesi dell’anno. A nord di Buè, la selvaggia e dirupata Val Fojera (“Un vallone dove non si vede il cielo”), faggete senza fine, rocce e gole profonde; lontano, il torrente corre tor- tuoso incontro alle strettoie dell’Arca. È la Val Grande selvaggia e inospitale. A sud, sentieri ancora percorribili, ampie strà di vacch che, nonostante il lungo abbandono, conservano ancora la cura dei manufatti di queste antiche “autostrade”. A nord la montagna si è riappropriata di tutto, ingoiando le esili piste tracciate dai boscaioli durante gli ultimi disboscamenti oltre mezzo secolo fa. Buè è anche un confine altimetrico tra fasce vegetazionali: verso il fondovalle i castagneti aggrappati ai pendii, verso le creste la faggeta pura. Per noi montanari è un luogo come fosse l’ombelico del mondo.
Per otto secoli Buè fu “abitato” otto, nove mesi l’anno. Case e stalle furono incendiate dai nazifascisti nel giugno 1944 durante il grande rastrellamento. Fu ricostruito, poi abbandonato definitivamente pochi decenni dopo.
Quello che non riuscì al fuoco tedesco, riuscì al boom economico.
Corte Buè è un luogo della storia e della memoria che conserva i valori etici della Val Grande (la solidarietà, la cura della terra, la libertà da difendere sempre).
Oggi il vecchio corte abbandonato sta rinascendo a nuova vita.
Il “Gruppo Escursionisti Val Grande” di Rovegro è molto attivo nella cura dell’ambiente valgrandino e organizza ogni anno molte gite alla scoperta della valle.
È associato all’UOEI (Unione Operai Escursionisti Italiani), associazione nata agli inizi del Novecento per un alpinismo popolare, in alternativa a quello elitario del CAI. Con un lavoro tenace e appassionato i volontari hanno recuperato due rustici diroccati: uno l’hanno adibito a baita sociale, l’altro a bivacco escursionistico sempre aperto. Il bivacco è lindo e accogliente; vedere venire notte a Buè è come entrare nel buio del tempo che scorre: dolcezza e malinconia. Se vai a Buè, quasi sempre ci trovi gente che viene in Val Grande da tutto il mondo. Perché? Forse perché a Buè si respira sia la storia che la natura.
Montagna
4. “Vicende d’Anzasca – Il sale della fatica”
Il mondo rurale delle Alpi è cambiato repentinamente in pochi decenni, nella seconda metà del Novecento. La montagna ha sofferto questi cambiamenti: i contadini sono diventati operai, alpeggi un tempo fertili sono oggi abbandonati, una società e una cultura immutata da secoli è stata rimescolata in breve dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione.
Un amico caro con cui condivido valori e passioni, ha scritto un libro molto bello su queste cose. Si chiama Marco Sonzogni, vive in una casa isolata sulle montagne di Calasca Castiglione e da venticinque anni lavoriamo insieme (volontariato puro!) per fare “Il Rosa – Giornale di Macugnaga e della Valle Anzasca”.
Tre numeri l’anno, distribuzione gratuita, per raccontare una montagna che cambia, comunità che hanno una memoria forte, ma un futuro incerto. Il libro comincia così. “Ho ritrovato, tra i miei appunti, un elenco puntiglioso, stilato qualche anno fa, in cui avevo numerato gli alpeggi del mio comune e altri che avevo visitato in Valle Anzasca. Per ciascuno di essi annotavo lo stato di conservazione, la qualità dei pascoli e dei sentieri, il numero delle casère e delle mucche inalpate (che ricavavo dal numero dei fori nelle mangiatoie), le stalle crollate, i trogoli e i fontanili oramai colmi di terra e di arbusti quindi, in calce, sintetizzavo queste notizie con vocaboli fin troppo lapidari sui quali uno fra tutti prevaleva: ‘abbandonato’. Cangèi, Pianòza, Pranco, Bletza, Vallàr, solo per citarne alcuni. Abbandonati, lasciati soli a se stessi con un distacco definitivo e assoluto.
Cosa sarà tra cinquanta, cento anni, mi sono chiesto? Avremo forse schiere di turisti guidati ai ruderi di questi luoghi? O non rimarrà più nulla? Le valanghe e le foreste avranno cancellato ogni cosa e si dovrà sca- vare alla ricerca di reperti?”
Nelle sue parole c’è il canto dolente di una civiltà rurale montana, che per secoli ha permesso con dignità la sopravvivenza di generazioni di donne e di uomini, ma oggi è sconfitta dalla storia.
Ritorna quel “mondo dei vinti” che Nuto Revelli ha raccontato con sereno orgoglio.
Nel libro c’è tuttavia un “riscatto” della montagna storicamente perdente. Sono due pilastri: quella solidarietà “minima” che sui monti resiste più che negli sfilacciati rapporti sociali urbani e una relazione autentica e consolante con l’ambiente naturale, con l’albero abbattuto dall’alluvione, con la lotta per la sopravvivenza invernale degli animali selvatici (condivisa e com- presa), con il capriolo che si avvicina alle case.
È il riscatto da quella desolazione cantata da Davide Van De Sfroos che condanna le valli alpine ad “una sorte senza pazienza, una sorte senza speranza”.
Io non credo sia così. La speranza è nei nostri giovani, affinché studi ed esperienze li portino a vedere le Alpi con occhi diversi dai loro genitori.
Personaggi
5. Carlo Alessandro Pisoni (1963 – 2021)
È mancato improvvisamente lo scorso 26 aprile Carlo Alessandro Pisoni, aveva due figlie e viveva a Germignaga, sulla “sponda magra” del Lago Maggiore. Ingegnere di formazione, ma storico per vocazione, dedicò decenni di studi al Lago Maggiore.
Il padre Pier Giacomo, con Carlo Alberti e Pierangelo Frigerio, avevano fondato la “Società dei Verbanisti”, sodalizio di studiosi di lago che pubblicò per molti anni la rivista Verbanus.
Forte di quell’esperienza, Carlo Alessandro ebbe l’intuizione grande di comprendere le opportunità dei nuovi media e fondò il “Magazzeno Storico Verbanese”, un portale (verbanensia. org) che raccoglie studi e ricerche e li mette a disposizione in tutto il mondo. Al momento della fondazione, mi chiese contributi sui monti dell’entroterra verbanese che fornii volentieri.
Fu così che diventammo amici.
Sia lui che io siamo gente da “terre di mezzo”, a metà tra il Lago Maggiore e il Monte Rosa.
È il destino che ci ha portati a nascere e vivere qui. Siamo anche “uomini di mezzo”: un occhio al lago e l’altro alla montagna. Divisi tra l’essere barcaioli e alpinisti.
L’amico Livio Locatelli, che gestisce una struttura ricettiva all’alpe Devero, mi ricorda i soggiorni alpini di Carlo Alessandro, avventure alpinistiche e studi sereni.
La sua statura di ricercatore gli valse incarichi importanti: la conservazione dell’archivio di Vittorio Sereni, la gestione dell’archivio borromeo all’Isola Bella (fonte insostituibile di ogni ricerca storica sull’Alto Novarese).
La sua bibliografia è molto vasta, l’ultimo suo lavoro importante è stato Gente di Lago – Storie e racconti del Lago Maggiore, la sfida vinta di unire cultura “alta e bassa”.
Mi aveva chiamato la settimana prima e mi aveva detto: “Pensa, quando sarò in pensione anch’io, quante cose belle potremo fare insieme.”
La notizia della sua morte è stata per me come uscire vivo da una valanga di lastroni.
Questa immagine bella ci restituisce l’uomo di lago con in spalla la corda del montanaro.
Noi, “uomini di mezzo”, siamo così. Vai Carlo Ales-sandro, con la tua corda e tanti amici, per il tuo lago, “con l’inverna e la tramontana”.
Montagna
6. L’albergo “Nigritella” di Campello Monti
Campello Monti è un villaggio walser abbandonato, a 1300 m, alla testata della Valle Strona. È un luogo alla fine del mondo: si lascia l’armonia del Lago d’Orta, si percorre una strada tortuosa e incassata tra ripidi versanti, finisce la strada contro aspri monti: lì è Campello Monti, abbandonato negli anni ’60 del Novecento. Torna a vivere pochi mesi in estate, come “buen retiro” di un’emigrazione di successo.
Ci andate in novembre e incontrate un silenzio assoluto, non voce d’uomo ma fruscio di vento. Ci vado da solo per provare per l’ennesima volta a capire l’animo e la storia della mia gente.
In inverno no, perché le valanghe rendono pericoloso l’accesso.
Eppure Campello Monti visse agli inizi del Novecento una belle epoque animata da intellettuali e ricchi borghesi.
Lungo la vecchia strada di valle fu portato un pianoforte e le “quattro rosine” (le sezioni del CAI a sud del Monte Rosa) vi tennero raduni e dotti convegni accompagnati da pranzi e danze. Quella stagione straordinaria ebbe come perno l’Albergo della Nigritella (orchidea alpina dal profumo divaniglia), gestito dal 1906 dalle sorelle Maria ed Enrichetta Piana. Un recente libro, curato dagli amici Lino Cerutti ed Enrico Rizzi, ne ricostruisce storia e aneddoti.
Nel secondo dopoguerra del Novecento, con l’abbandono dello sperduto villaggio alpino, divenne colonia estiva di una parrocchia di Novara. Dopo 114 anni, nel 2020 l’albergo ha riaperto per volontà dell’amica Elvira Zamponi che lo gestisce in estate con dolcezza e fiero cipiglio. Una scommessa e un atto di fiducia nel futuro di questi sperduti villaggi abbandonati. L’Elvira ha scommesso sulla nobiltà gratificante di un’antica tradizione ospitaliera alpina.
Scrisse alla fine del Settecento Horace Benedicte de Saussure: “L’anima della gente delle Alpi, non conoscendo che eguali, si nutre di nobili azioni e i servigi che rende, l’ospitalità che offre, non ha nulla di servile e di mercenario ed in essi si vedono brillare autentiche scintille di quella fierezza, compagna e guardiana di ogni virtù.”
Quest’estate, una visita a Campel- lo Monti potrà riempire una bella giornata in montagna. Una breve gita sui monti e poi a colazione dall’Elvira. Vi accoglierà con un sorriso e inizierà il rito della parola: “Cosa volete mangiare?”, voi risponderete: “Quello che c’è.”, lei vi offrirà quello che ha. Semplice e onesta cucina alpina, non creazioni artefatte da chef televisivi.
Poi, con l’autunno, tornerà il silenzio sulla montagna.
Personaggi
7. Franco Mazzuchelli (1931 – 2021)
Franco Mazzucchelli è stato un grande uomo di montagna, mosso da una passione salda e da buoni valori alpini. Nel 1948, a soli 17 anni, fu tra i soci fondatori della sezione di Gravellona Toce del Club Alpino Italiano e ne divenne poi per due decenni storico presidente. Raccontano i vecchi che, in un’Italia uscita da una guerra terribile, l’andare in montagna come a ballare rappresentava la voglia di tornare a vivere. La montagna, che aveva protetto partigiani e perseguitati, diventò un nuovo terreno di libertà. Franco, spirito sagace e lingua tagliente, fu anche tra i soci fondatori della scuola intersezionale di scialpinismo “Massimo Lagostina” e ne divenne istruttore per molti anni.
Nell’immediato secondo dopoguerra fu tra i promotori della realizzazione del rifugio alpino all’alpe Cortevecchio, sui monti di Ornavasso. Una “creatura” che curò per tutta la vita ed ancora oggi offre un’ospitalità di stampo antico e occasione di buone escursioni tra i laghi e le Alpi.
Nel 1984 lo incontrai al rifugio di ritorno da un’ascensione solitaria al Monte Massone. Bevemmo un bicchiere e parlammo di monti e sentieri, poi mi disse: “Sarebbe bello riunire tutti gli alpinisti della bassa Val d’Ossola nella sezione di Gravellona Toce; sono tanti che vanno in montagna e sparsi in tante sezioni differenti. Dammi una mano.”
Non fu facile, ma ce la facemmo.
Fu un suo capolavoro. Ci incontravamo spesso in montagna, occhi limpidi e parole per dire cose a cui tenevamo: i sentieri e la segnaletica, il rifugio, il Soccorso Alpino.
È stato un buon tempo. Vai Franco per le tue montagne, con la memoria di belle scalate e di tanti amici che ti hanno voluto bene. Nell’immagine: Franco Mazzucchelli verso il rifugio Caron (3170 m) per salire l’indomani la Barre des Ecrin (4101 m), “la regina del Delfinato”.